Annibale Salsa e il fascino di un'estate in alpeggio
Il noto antropologo studioso della montagna ha pubblicato un nuovo volume: stavolta però è autobiografico e racconta dell'infanzia nel mondo rurale
TRENTO. Per Annibale Salsa, già docente all'Università di Genova e presidente generale del Club Alpino Italiano, l'antropologia alpina è un tema chiave oggetto di studi, ricerche, pubblicazioni. Delle identità alpine, dei paesaggi naturali e culturali, così come delle dinamiche delle popolazioni e delle loro trasformazioni, Salsa si è occupato in decine e decine di saggi e in articoli apparsi non solo sulle riviste scientifiche, ma anche sulle pagine del nostro giornale.
Ora, però, segnaliamo un suo libro autobiografico, Un'estate in alpeggio, pubblicato nella collana «Passi» di Ponte alle Grazie e Cai (128 pagine, 13 euro), una narrazione autentica ed emozionante della vita in malga, dei suoi riti e dei saperi antichi che Alessandro Pastore - storico e presidente del Centro operativo editoriale del Cai - ha definito «un libro intenso, nutrito dal ricordo dell'infanzia e sostanziato dal sapere dello studioso».
«Sono partito con un piccolo zaino, otto mucche e l'idea che raggiungere la montagna avrebbe significato conquistare il mondo», racconta Salsa. Gli abbiamo chiesto di parlarci di sè partendo da lassù, da quell'alpeggio delle Alpi Liguri che sembra avergli additato la via alpina del sapere e della conoscenza.
Professor Salsa, nel libro racconta il suo incontro giovanile con la montagna delle malghe e del lavoro, dell'equilibrio fra l'uomo e l'ambiente. Questa dimensione ha segnato anche il suo futuro di antropologo?
«Non c'è dubbio che io abbia avuto una forte predisposizione verso il mondo dell'alpe già dalla tenerissima età. Questa esperienza precoce ha segnato la mia vita e con l'età adulta si è tradotta nel desiderio di approfondire sul piano scientifico-culturale la realtà alpina dal punto di vista dei nativi (come dicevano i vecchi etno-antropologi) ossia, in questo caso, dei montanari».
Lei scrive che, in un certo senso, non è sceso da quell'alpeggio: non è mai tornato dalla conca del Prel. Può spiegarlo meglio?
«Esperienze così forti lasciano il segno. La fine dell'estate era per me un trauma e, nel primo mese di scuola, mi sentivo molto spaesato. Fino a 14 anni ho vissuto a stretto contatto con il mondo rurale del nord-ovest essendo la mia famiglia paterna di origine piemontese (alto novarese) e quella materna dell'entroterra ligure di ponente (provincia di Savona) al confine con la Provincia di Cuneo. Ho conosciuto di persona gli anni dell'abbandono della montagna e dell'alta collina. I miei cugini di parte materna vivevano in una valle del versante piemontese delle Alpi Liguri (Valle Corsaglia). Nei mesi estivi conducevano le bovine negli alti pascoli del massiccio del Mondolè (Alpe della Balma, conca del Prel). Alla fine degli anni Sessanta, in quelle zone di bellissimi pascoli, sono sorte stazioni sciistiche poco attente ai valori paesaggistici in quanto ispirate al modello delle stazioni francesi di ski-total. In quel momento ho capito che cosa significasse sentirsi spaesato. Per questo motivo sono molto sensibile ai valori del paesaggio e dell'equilibrio armonico tra uomo e natura».
Come è giunto alla decisione di narrare la sua infanzia e la sua adolescenza in malga?
«Dapprima ero un po' scettico in quanto, come studioso, mi sono sempre cimentato in lavori di tipo saggistico, sia in ambito filosofico (disciplina per me fondamentale anche per chi si dedica alle scienze applicate, come per un fisico è la matematica), sia in ambito antropologico. Da alcuni anni, tuttavia, gli amici più stretti e alcuni parenti hanno insistito affinché scrivessi qualcosa secondo un registro narrativo di tipo autobiografico onde lasciare una testimonianza personale in questa fase conclusiva della vita. Fino all'età di 14 anni ho vissuto a stretto contatto con il mondo rurale tra Piemonte ed entroterra ligure. Ho conosciuto gli anni dell'abbandono della campagna e della montagna, i grandi esodi quasi biblici dall'Alta Langa e dalle Alpi occidentali e, per questo, ho incominciato a guardare al Trentino e al Sudtirolo con un'attenzione tutta particolare».
Werner Bätzing, nel suo libro "L'ambiente alpino" del 1984, sosteneva che l'alpicoltura è la soluzione più semplice e produttiva per la stabilità ecologica del territorio alpino. L'alpicoltura andrebbe sostenuta in misura maggiore di quanto non si faccia oggi, anche rispetto alle attività turistiche?
«L'alpicoltura è - come scriveva un grande studioso di geografia alpina John Froedin - l'essenza autentica dell'economia alpina. La parola "alpe", nella sua originaria accezione etimologica, significa "pascolo". Per questo motivo, una montagna senza malghe è una montagna azzoppata, monca. Le politiche della montagna alpina dovrebbero riservare una maggior attenzione a queste attività».
Che cosa vede nel presente e soprattutto nel futuro dell'alpicoltura?
«Vedo un nuovo inatteso interesse da parte di molti giovani a dedicarsi all'allevamento stanziale bovino o, addirittura, alla pastorizia transumante ovina che, in molti Paesi alpini, sta vivendo una nuova giovinezza. Un interesse impensabile fino a qualche anno fa per un'attività che possiede forti tratti di arcaismo. In Germania, in Svizzera, in Francia vi sono scuole di rango universitario dedicate alla formazione di queste competenze, come ho avuto modo di verificare direttamente di persona nelle Alpi francesi e svizzere».