Intervista / Quota

Il mondo visto dalla cima dello Stivo: storia del rifugista Alberto Bighellini, al comando del Marchetti

Come cambiano le strutture: «Avamposti naturalistici, non hotel». Ma a cambiare più velocemente il clima: «A Capodanno c’erano 12 gradi, è spaventoso»

di Laura Modena

VAL DI GRESTA. È intitolato a Prospero Marchetti – primo presidente della Sat – il rifugio costruito nel 1906 sul monte Stivo, in omaggio al primo presidente e cofondatore della Sat. Dalla struttura, a 2011 metri, si apre agli occhi dei visitatori un incantevole panorama che va da sud a nord ovest, con la Lessinia, l'altopiano di Brentonico, il Baldo, l'Altissimo, il Garda fino a Sirmione, Salò e Desenzano, la Pianura padana fino agli Appennini.

Tra i Lessini e il Baldo si stagliano il Cimone e il Cusna, mentre a sud del lago di Garda si riesce a scorgere l'Appennino ligure. E ancora, volgendo lo sguardo verso nord, si distinguono il gruppo dell'Adamello, la Presanella e il Cevedale. Ma se si sale per poche decine di metri, dalla cima dello Stivo la vista si apre in tutte le direzioni.

Uno straordinario punto di osservazione raggiunto ogni giorno poco prima dell'alba dagli ospiti del rifugio per ammirare il cielo schiarirsi poco a poco, diventare rosso e lentamente illuminarsi del magnifico spettacolo del sorgere del sole. Per la settima estate consecutiva il gestore del "Marchetti" è Alberto Bighellini, 35 anni. Studi classici alle spalle, il rifugista originario di Verona da ragazzo sognava di fare il professore di latino e greco. Finché, dopo la laurea in Lettere, ha iniziato con le stagioni nei rifugi, partendo da Pian dei Fiacconi sulla Marmolada.

«Una sera i titolari mi hanno lasciato da solo a cucinare e a gestire i clienti. Era un periodo in cui mi chiedevo cosa fare della mia vita e così, quel giorno, ho deciso. Per anni ho scopiazzato modi di fare, ricette ed esperienze lavorando nei rifugi sull'Altissimo, sul Catinaccio, in Valle d'Aosta, sul Baldo. E, per diverse ragioni, li ho amati tutti»,

Dopo tanta esperienza, qual è ora la sua idea di rifugio?

«Per me è un avamposto di presenza naturalistica, un luogo che deve garantire sobria ospitalità integrandosi nel territorio. Un rifugio non deve diventare un hotel o uno chalet perché l'ambiente in cui si inserisce è severo. Non è certo un luogo di privazioni, ma quello di cui hai bisogno qui è veramente poco. Quando arrivi è essenziale poter bere, mangiare e parlare con le persone. Questo non significa scarsa qualità, anzi, collaboriamo con malghe e enti vicini per offrire il meglio».

Sul menu del "Marchetti" si legge "Abbiamo ottenuto il marchio ecoristorazione". Di che si tratta?

«È un marchio rilasciato dalla Provincia che riconosce l'impegno del rifugio nella salvaguardia dell'ambiente. Usiamo prodotti biologici e a filiera trentina, cerchiamo di ridurre i rifiuti e di ottimizzare i consumi di acqua e energia. Ma ci diamo da fare anche con frequenti attività di informazione ambientale alla clientela. È una strada che ho deciso di intraprendere da qualche anno, anche perché da qui io vedo il palese cambiamento climatico in atto».

Qual è il suo punto di vista in merito?

«Da anni vedo inverni e estati a duemila metri con il termometro in mano, ho quindi un'esperienza empirica e i dati parlano chiaro. Per esempio a capodanno dell'anno scorso c'erano 12,5 gradi e a febbraio ero qui a petto nudo. Magari arrivano nevicate di 4 metri, ma di neve umida, e non secca. Penso che il compito di un rifugio sia anche quello di diffondere conoscenza e consapevolezza rispetto alle questioni ambientali».

Nel libro "La montagna sacra" l'alpinista Enrico Camanni esorta a individuare una montagna, invitando poi i turisti a non andarci per preservarla. Che ne pensa del turismo di massa in quota?

«Ci sono miliardi di posti molto belli, ma tutti vanno sulle tre cime di Lavaredo o sul Catinaccio. Bisognerebbe distribuire il turismo su tutte le Alpi, dove abbiamo montagne meravigliose con una potenzialità pazzesca, come ad esempio il Cadria, il Misone, il Pizzocolo e tante altre».

Che tipo di struttura è il "Marchetti"?

«Abbiamo 27 posti letto e quasi 200 coperti tra interno e esterno. Siamo aperti ogni giorno dall'1 giugno al 3 novembre, poi ogni weekend di bel tempo, nelle notti di luna piena, e durante ponti e vacanze. Si arriva attraverso tre accessi principali, dal parcheggio Sant'Antonio sopra Santa Barbara, da Passo Bordala e da Malga Campo di Drena. Qui siamo come una barca in mezzo al mare, non c'è nulla al di fuori del rifugio in sé. Raccogliamo l'acqua piovana, abbiamo i pannelli fotovoltaici e il generatore per la corrente. Bisogna quindi sapersi organizzare e fare cambusa con i rifornimenti in elicottero».

Quali attività si possono praticare qui attorno?

«Mountain bike, trekking classico, parapendio, sci alpinismo, ciaspole, trail running. Cerchiamo di tenere vivo anche l'aspetto culturale ospitando musicisti e proponendo serate di divulgazione scientifica. Collaboriamo con le scuole e con i gruppi di colonie estive, ma anche con bande e cori della Sat».

Lei ha una pagina Instagram molto attiva. Quanto conta la comunicazione social per i rifugi?

«È importante per comunicare informazioni come aperture o iniziative varie. Io poi ho trovato questo mio linguaggio che funziona, mescolando italiano, dialetto e battute divertenti. Ma non uso i social per dare indicazioni sulla sicurezza, per quelle preferisco fare una telefonata dopo aver sentito le guide alpine. Ci sono giornate in inverno dove qui morire è veramente semplice, le piccole montagne di casa non sono mai da sottovalutare».

Cosa le è rimasto degli studi classici ora che da più di dieci anni è rifugista?

«La passione per la lettura e forse anche una capacità di analisi critica della realtà che cerco di trasmettere ai miei ospiti».

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