Annibale Salsa: «Nuovi vigneti ad alta quota? Se ben gestiti, non è tabù»
L'antropologo: «Il cambiamento climatico permette la viticoltura ad altitudini prima impensabili. Se adottata con limitazioni coerenti, non distrugge per forza il paesaggio. La gestione del territorio non va fatta su posizioni da bar Sport, i sì contro i no. Il paesaggio è frutto dell’azione umana, è naturale che cambi. Basta sia fatto con criterio»
ROVERETO. L’abbattimento di un’ampia faggeta brentegana a beneficio di un vigneto in località Ca’ Rossa ha sollevato malumori e perplessità. La messa a dimora delle viti, concessa alla società agricola «Agribel» dall’ufficio territoriale facente capo al Servizio foreste e fauna della Provincia di Trento, è stata oggetto di discussione consiliare lo scorso febbraio. Presto sarà materia del consiglio provinciale a seguito di un’interrogazione depositata da Lucia Coppola (Verdi e Sinistra).
A interrogarsi sui meccanismi di salvaguardia e gestione del paesaggio, elemento chiave del benessere individuale e sociale, è anche uno dei massimi esperti italiani: Annibale Salsa, antropologo, conoscitore delle Alpi e della trasformazione identitaria delle popolazioni alpine.
Salsa, i cittadini brentegani hanno motivo di preoccuparsi?
«Non entro nel merito dell’autorizzazione data. Il vigneto però è altro rispetto alla coltura intensiva che siamo abituati a vedere in Pianura Padana, soffocata da grano e mais. La viticoltura avanza in virtù del cambiamento climatico, che ne favorisce la sopravvivenza ad altitudini prima impensabili. Molti territori la stanno introducendo, basti pensare a Valtellina e val d’Aosta. Il Trentino non è da meno: le vigne si trovano persino in val Rendena e nelle Giudicarie. Il problema riguarda il metodo di inserimento. È chiaro che rimuovere tutte le faggete esistenti trasformerebbe i vigneti in ospiti distruttivi. Rispettare l’alternanza di spazi aperti e chiusi rende invece possibile preservare un paesaggio immettendovi delle viti. Le tematiche paesaggistiche rifiutano l’approccio dualistico e oppositivo da Bar Sport, che contrappone i “sì” e i “no”. Vi sono limiti inequivocabili, ciò non toglie che i paesaggi vitivinicoli arricchiscano la montagna».
È il paesaggio a definire un territorio oppure è lo scenario a scaturire dall’antropizzazione?
«Il termine “paesaggio” deriva da “paese” ovvero un’area costruita dall’uomo, non data dalla natura. È una costruzione culturale che si differenzia dall’ambiente naturale. Anche le praterie dell’altopiano di Brentonico non sono naturali, ma frutto del lavoro prodotto dal bosco. La continua evoluzione rende vario e diversificato il paesaggio, a seconda dei modi di vivere di chi lo abita e circonda. Le viti rappresentano un valore aggiunto, basti vedere i fondovalle trentini o la destra orografica della valle di Cembra».
Quanto incidono i cambiamenti climatici sull’utilizzo dei versanti montani?
«Oggi siamo in presenza di un’eccessiva avanzata boschiva pari al 3% in Trentino ma già all’8% in altre località alpine. Non vi è alcun impoverimento della superficie forestale: piuttosto dobbiamo fare i conti con l’inselvatichimento, lo spopolamento e la carenza di pascoli cui fa seguito la penuria di sfalcio. Se i trentini vissuti oltre cento anni fa si risvegliassero, non sarebbero in grado di riconoscere più il paesaggio. Il bosco sta inghiottendo i paesi una volta a coltura rurale, cardine di un’agricoltura alpina ora in regressione. Serve un risveglio ideologico».
Dunque «ripensare la montagna», tema a Lei caro. Come si attua?
«Con cognizione di causa e attinenza alla realtà. Serve uno sforzo culturale che ci spinga ad abbandonare le posizioni aprioristiche basate sulle ideologie. In Italia fatichiamo a ragionare sul processo, sul “come”. Purtroppo, le dialettiche oppositive hanno la meglio anche nel mondo ambientalista. La “Convenzione europea del paesaggio” (citata nell’interrogazione di Coppola, ndr) parla chiaro: il paesaggio è il risultato dell’interazione tra uomo e natura. Tale correlazione nasce dalla percezione che una comunità nutre nei confronti del luogo in cui vive, abita e risiede. La popolazione germanica ha una percezione boschiva del paesaggio, quella latina è sempre stata vicina alla rurale».
Possiamo affermare che la Vallagarina vive un continuo mutamento percettivo?
«Sì, al momento la sua coltura è in trasformazione. Non significa certo autorizzare ogni genere d’azione umana, semmai porre dei chiari limiti come in passato. Si parla di paesaggio alpino a partire dal XII secolo: già nel 1100 vi erano le “Carte di Regola”, antichi statuti contenenti divieti e obblighi. I limiti del prato, quelli del bosco, cosa utilizzare o meno nei terreni agricoli e così via. Il cambiamento fa parte della vita ambientale e umana, quindi concerne pure l’apparato paesaggistico: il territorio lagarino pullulava di tabacco, oggi assente. C’era il gelso, come in altre valli, anch’esso pressoché sparito. Il paesaggio va di pari passo alla nostra cultura».
Vi sono dei rischi negli investimenti odierni?
«L’agricoltura di montagna deve ispirarsi all’agricoltura estensiva, non a quella intensiva. Nel concreto, sarebbe errato eliminare fare piazza pulita di faggi e abeti per dare spazio a soli vigneti. È possibile però farli convivere, senza cadere nelle finalità agro-industriali che sono un eccesso e riducono la biodiversità. Non va bene in pianura, figuriamoci qui».
Quali colture potrebbero allora aiutare i nostri boschi?
«Il rialzo termico che caratterizzò il Medioevo tra il 1000 e il 1200 portò sì alla perdita dei ghiacciai, ma anche alla crescita della viticoltura a 1.800-2 metri d’altitudine come avvenne nel Canton Vallese. Questo per dire che serve una mentalità dal pensiero critico, non dogmatico. Possiamo tutelare il paesaggio dagli estremismi senza disdegnare i cambiamenti».