Montagna, dopo Vaia niente rimboschimenti

di Annibale Salsa

L’Unione Nazionale dei Comuni, Comunità, Enti montani (UNCEM), in un comunicato diramato il giorno 22 febbraio dal titolo: «Meglio gestire le foreste che piantare alberi nei Comuni montani», ha posto il problema che, dopo la tempesta Vaia, è riecheggiato da più parti dando avvio alla recente campagna mediatica: «60 milioni di alberi». Qui emerge in tutta evidenza il profondo solco culturale che divide chi ha una percezione dell’ambiente costruita all’esterno dei territori montani e chi vive la montagna in presa diretta, quotidianamente. In più occasioni sono intervenuto su «l’Adige» per porre in evidenza un problema ben noto a chi conosce la montagna da vicino. Si tratta del fenomeno del re-inselvatichimento caratterizzato dall’avanzata naturale del bosco con piante pioniere. Questo fenomeno modifica profondamente i paesaggi della montagna riducendo, anno dopo anno, gli spazi aperti delle superfici prative e pascolive.

Inoltre, il cambiamento climatico in atto sospinge verso l’alto la fascia vegetazionale arborea e arbustiva andando a invadere le praterie d’alta quota dove insistono i pascoli e le malghe. A seguito della tempesta Vaia qualcuno sosteneva, sotto l’effetto dell’emozione suscitata dalla catastrofe ambientale e quindi psicologicamente comprensibile, che ogni albero schiantato andava rimpiazzato con una nuova pianticella da rimboschimento. In quella occasione ho scritto, su questo giornale, un articolo dal titolo: «Vaia, da calamità a opportunità» cercando di portare la riflessione su di un piano razionale, non emotivo. Anche in passato ho affermato un po’ provocatoriamente che, a fronte dell’avanzata della “boschina”, forse si doveva sostituire pro tempore la festa degli alberi con la festa dei prati. I problemi dell’ambiente, come quelli della vita sociale ed economica, devono essere relativizzati ovvero inquadrati nel momento e nel contesto storico che li ha generati. Altrimenti finiamo per assecondare una visione dogmatica e assolutistica della realtà che contrasta con una seria valutazione scientifica. L’intervento di UNCEM mi pare quanto mai opportuno ed efficace nell’inquadrare il fenomeno in un’ottica concreta e territorialmente vissuta.

Nel suo comunicato, l’Associazione dei Comuni montani muove dalla constatazione di aver appreso che: «i Comuni sono stati raggiunti da nuove proposte e inviti a piantare alberi. Una soluzione semplicistica - afferma l’Ente - per affrontare le sfide climatiche ed ecologiche in corso». Al monito di UNCEM si è aggiunto anche SISEF, Ordine degli Agronomi e Forestali. Non si tratta certamente di una demonizzazione delle attività di piantumazione degli alberi in quanto, come si afferma con piena cognizione di causa, «se nuovi alberi si vogliono piantare, questo va fatto dove serve ossia nelle aree urbane, nelle zone metropolitane, prevedendo le adeguate essenze e anche efficaci strumenti per la gestione del verde». Quest’ultimo passaggio si rivela opportuno in quanto, nel passato, il sacro fuoco del rimboschimento ha privilegiato i “coniferamenti” a base di resinose, spesso non autoctone. Ciò per due ragioni culturalmente spiegabili: una di natura immateriale, in cui il termine «pino» (impiegato genericamente per indicare tutte le aghifoglie) ha rappresentato un simbolo forte, iconico, l’altra per ragioni materiali riconducibili al rapido accrescimento di queste piante. Gli effetti estetici di quegli interventi sono sotto gli occhi di tutti: il primo è rappresentato dalla banalizzazione del paesaggio, il secondo da ricadute ecologiche negative dove il rimedio è stato peggiore del male (scarsa qualità del legname, ecosistemi impoveriti nella biodiversità, parassiti dannosi come la processionaria).

 Al centro dell’ammonimento di UNCEM vi è l’affermazione, riportata in neretto, secondo cui: «nelle aree montane del Paese il problema e la necessità non è piantare nuovi alberi. I Comuni alpini e appenninici lo sanno bene trovandosi a gestire 11 milioni di ettari di bosco in Italia che, se cresceranno ancora un po’ senza gestione, diventeranno sempre più un problema, un’urgenza». Nel quadro dell’elaborazione della nuova Strategia forestale nazionale prevista dalla Legge forestale 2018, prosegue il comunicato, occorre «rendere i boschi più produttivi e protettivi, a vantaggio di protezione dei versanti e difesa dal dissesto». Tuttavia la raccomandazione più importante, alla luce della situazione presente, è quella di: «provare a individuare almeno qualche ettaro di superfici, nei nostri Comuni montani, di prato-pascolo. È stato troppo mangiato dal bosco. Ne abbiamo sempre meno». Eppure, prosegue UNCEM, «l’assorbimento di CO2 del prato-pascolo raggiunge livelli importantissimi. L’abbandono delle superfici agricole va contrastato con chiare politiche e indirizzi da parte dei Comuni. Abbiamo perso troppe aree a pascolo. E biodiversità. A farne le spese è l’economia della montagna, tanto più perché invasa da un bosco dallo scarso valore».

E per concludere, a fine comunicato, UNCEM non poteva essere più esplicita nell’affermare che: «nei Comuni montani stiamo bene anche con un albero in meno, meno demagogia e più concretezza. L’economia della montagna ha nell’agricoltura, nell’allevamento e nelle gestioni forestali attive tre grandi pilastri. Non perdiamoli raccontando che un albero in più ci protegge sempre e comunque da cambiamenti climatici e mancanza di biodiversità. Un albero in più ai Comuni montani oggi non serve». Anche se la situazione trentina è decisamente migliore, il messaggio rappresenta un utile stimolo a non abbandonarci a facili narrazioni costruite più a tavolino che a contatto diretto con la realtà.

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