Con la cultura si mangia, ecco il giro d'affari
Ma allora, con la cultura non si mangia (Tremonti docet) o si mangia eccome, o meglio si potrebbe mangiare? Non solo perché la gastronomia è sempre più arte e intrecciata con l'arte, ma perché la cultura crea occasioni di lavoro se si mettono «a fattor comune» le risorse (140 milioni la spesa nel settore, il 55% finora timbrato Provincia). La risposta più saggia è: «Dipende». Ovviamente Rovereto non è New York, e il Mart non è il Met.
Ma allora, con la cultura non si mangia (Tremonti docet) o si mangia eccome, o meglio si potrebbe mangiare? Non solo perché la gastronomia è sempre più arte e intrecciata con l'arte, ma perché la cultura crea occasioni di lavoro se si mettono «a fattor comune» le risorse (140 milioni la spesa nel settore, il 55% finora timbrato Provincia). La risposta più saggia è: «Dipende». Ovviamente Rovereto non è New York, e il Mart non è il Met. Rovereto non è neppure Bilbao, dove il Guggenheim è costato 132 milioni ma si ripaga, se è vero che porta una ricaduta stimata di 210 milioni di euro l'anno. Confronti acrobatici, d'accordo. Ma confronti necessari, anche in prospettiva trentina, se non altro perché non siamo brillantissimi nella graduatoria nazionale delle 110 province: Trentino solo 26°, con un'incidenza del 5,3% sul valore aggiunto totale.
Se - biglietti d'ingresso a parte - il Met fattura 75 milioni all'anno in servizi aggiuntivi, e tutti i musei d'Italia, messi insieme, non arrivano ai 45 (tra caffetteria, bookshop, audioguide, ecc.), si capisce che abbiamo un «problemino». Nazionale, s'intende. Che però non può non riflettersi anche a livello provinciale, pur nella magnifica autonomia del Trentino, sempre più mal sopportata dal governo nazionale e sempre più rudamente tagliata. Un'interessante ricerca di Trentino sviluppo e assessorato allo sviluppo che verrà presentata domattina a Trento, e che l'Adige qui anticipa, stabilisce che ogni euro speso in cultura genera 2,49 euro di pil, e che ogni 100 imprese artigiane, 30 sono connesse al settore culturale oppure ne beneficiano in qualche modo.
Le conclusioni dello studio coordinato da Renata Diazzi e intitolato «La cultura come fattore di produzione» sono necessariamente approssimative, ma possono costituire traccia utile, all'insegna della «contaminazione» positiva tra settori culturali e produttivi, nonché tra pubblico e privato.
1) Mettere in rete esperienze e progetti, come DeA (Design e artigianato), Triennale legno, banca dati professioni Film Commission, Tuning Art, showroom innovazione al Muse, Progetto Cibo al Mart, mappatura delle conoscenze e competenze negli enti di ricerca e musei.
2) Una Borsa dell'artigianato per fare incontrare domanda e offerta, finalizzata ai prodotti da vendere nei musei (souvenir, giochi, prodotti gastronomici dedicati, ecc.).
3) Costituzione di un «ufficio stile» diversificato per le varie Comunità territoriali, che dia un orientamento tecnico e di design alle imprese d'area. 4) Nascita di un Osservatorio sul legame artigianato-cultura per monitorare puntualmente l'esito dei progetti in termini di partnership create, valore delle vendite realizzate, posti di lavoro aggiuntivi, impatto sul pil.
Proposte aperte. Se non ci saranno troppi «tavoli» di confronto, magari qualcuna diventerà realtà. E pil.
[nella foto, coda di Pasquetta al Muse]