Senza guardie, nè armi, nè barriere, le rivoluzionarie carceri brasiliane
Ci sono carceri rivoluzionarie dove non ci sono guardie, armi e barriere. Sono in Brasile e di certo sono un'eccezione. La fotografa bresciana Marina Lorusso le ha documentate entrando lì dentro. Ne è venuto fuori un viaggio di speranza in 18 fotografie che ora sono in esposizione fino al 27 novembre con ingresso libero a Gangcity - evento collaterale della 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia - organizzato da Università e Politecnico di Torino.
Le APAC : Istituti detentivi le cui chiavi sono in mano agli stessi detenuti, chiamati recuperandi, che autogestiscono la vita comune e partecipano a progetti di formazione professionale guidati da associazioni senza scopo di lucro. L’indagine fotografica, promossa dall’ong italiana AVSI (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale), racconta attraverso le immagini dei luoghi e degli individui che li animano come l’esperienza delle APAC rappresenti oggi un’effettiva risposta alternativa all’inefficienza dei sistemi di detenzione tradizionali.
APAC: la storia e il metodo - “Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori”
Le strutture APAC (dal nome dell’associazione che le gestisce: Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati) nascono nel 1972 nella città paulista di San José dos Campos per mano di un gruppo di volontari guidati dall’avvocato Mario Ottoboni. ''Si tratta di piccoli centri di recupero per detenuti e di espiazione alternativa della pena che in oltre 40 anni di vita non hanno prodotto né una sola rivolta, né un singolo caso di corruzione o spaccio mentre le fughe si contano sulle dita di una mano – spiega Valdeci Antonio Ferreira, Direttore generale FBAC, Fraternitade Brasileira de Assistencia aos Condenados – Il tasso di recidiva di chi esce è del 15% contro l’85% del resto del Paese".
Dopo le iniziali resistenze del Governo e del sistema giudiziario brasiliani, le strutture sono diventate oggi 147 in Brasile, per una popolazione di oltre 3500 recuperandi, in un Paese che conta 600.000 detenuti e un tasso di recidiva di 20 punti percentuali in più della media mondiale. «Oggi il metodo APAC è stato replicato in diverse città ed è attualmente testato in 22 paesi – conclude Ferreira – a dimostrazione del fatto che si sta lentamente sgretolando il preconcetto per cui un detenuto debba necessariamente soffrire violenze, abusi e degrado o debba morire. Un detenuto realmente riformato è un successo per l’intera società e nessuno è irrecuperabile».
Il metodo APAC parte dal riconoscimento di aver commesso un errore e dalla decisione di cambiare per essere poi inseriti in un sistema basato sull’autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto. Nelle APAC, con l’aiuto di psicologi, operatori sociali e formatori i detenuti studiano e lavorano, aiutandosi a vicenda. Il metodo punta su: coinvolgimento della famiglia del detenuto, partecipazione della comunità esterna alla struttura, attenzione alla salute e possibilità di coltivare la dimensione religiosa. Lo scopo finale è di offrire al condannato le condizioni per pagare il suo debito con la giustizia e contestualmente recuperare se stesso.
La mostra di Marina Lorusso è ospitata nello spazio Thetis all’Arsenale Nord di Venezia come parte integrante di Gangcity, progetto internazionale di ricerca sulle soluzioni al problema del degrado sociale connesso al degrado degli spazi.