Viaggio nei rifugi: Larezila scrigno di memorie sul Lusia
Entri e ti accolgono due manichini in costume ladino e vedi il piccolo bar, quasi una reception. Poi il salone: tavole tovagliate in rosso e bicchieri a boccia per il vino. E ti accoglie il fuoco.
È un rito la sua accensione, ogni giorno. Oggi è toccato ad Angelica (sorriso che sprigiona da occhi azzurri), con Aurora e Roberto figlia del gestore, far crepitare la prima legna. Ai 1.800 metri del Rifugio Larezila, sul Lusia, territorio di Moena. Un quarto di nobiltà del rifugismo trentino. Che ha visto arrivare in questa "casa alta", come la chiama Angel, anche la signora Pasternak. No, non la donna di Boris, la sorella.
Siamo arrivati lassù non per la via più indicata, quella della cabinovia che porta al Rifugio Lusia (mt. 2050), scendere alla stazione intermedia e affrontare il tratto in discesa, su un percorso botanico (tabelle informative sulla flora locale e con pensieri su silenzio, acqua, poesia). Fino a Colvere, dove trovi due postazioni di cannoni della Grande guerra. Poi Larezila (lariceto in ladino).
Noi invece abbiamo superato Moena, verso Passo S. Pellegrino e dopo un paio di chilometri, preso la strada bianca per il rifugio, accompagnati da qualche biker. Col sole che fonde il paesaggio. I fiori di fragola hanno scarsa rugiada addosso e il muschio è asciutto. Il Rif dell'Onès è ormai un filo d'acqua, il Rif de Poza è più ricco, frusciare d'acque, biancheggiare e gettarsi in basso. «A mio ricordo ? dice Angel Iellici, 1952 ? non ho mai visto carenza d'acqua come quest'anno. Noi rifugisti siamo preoccupati: meglio senza luce che senza acqua per le nostre case alte».
Perché portare in quota la gente con la cabinovia? La montagna non merita la selezione della fatica? Il gestore è vicepresidente dell'associazione dei rifugisti: «Mi chiedo continuamente perché avrei voluto scappare cento volte di qui. Solo perché sapevo che 101 volte sarei ritornato». Parla ladino Angel ma gira sull'italiano: «Siamo gli ultimi emigranti, gli sforzi di chi sta sui rifugi, dei miei figli e di mia moglie (ndr, la signora Valeria è architetto e insegnante in istituti superiori) devono trovare gratificazioni. Le albe ed i tramonti.
Ma anche economiche. Ai nostri figli per onestà dovremo consegnare aziende che li possano gratificare. Io sono la terza generazione».
Davanti al fuoco percepiamo il pianto di una chitarra andalusa. Si tendono i peli sulle braccia. Come quando, pochi minuti fa salendo (45 minuti di cammino teso e rapido, un'ora e mezza per le famiglie) il bosco si è aperto. E ci ha mostrato il Catinaccio, il Latemar e la Conca del Passo Carezza. Nemmeno il Cristo Velato di Giuseppe di Sanmartino è più bello. La chitarra, in un rifugio di tovaglie rosse. E le foto antiche, i cimeli di caccia, le pipe ladino tirolesi. «L'orticello ce l'ho ancora ? dice l'Angel agli ospiti di Verona ? ma per seminare aspettiamo la luna».
Occhi blu, capello lungo e viso interessante Angel: «I miei avi sono arrivati quassù nel ?700. Venivano da Moena per fare il fieno. Tutti cacciatori». Tre o quattro schioppettate all'anno le tira anche lui. «Mio nonno Giobatta Iellici era contadino e nel 1904 ha notato che c'era movimento su questa montagna: boscaioli, cacciatori, gente che tagliava l'erba e qualche camminatore. Con l'aiuto del Deutscher und Österreichischer Alpenverein aprì il rifugio. La via era quella di Bolzano, Moena, Carezza, Lusia, Rolle e S. Martino di Castrozza».
Zone nobili della montagna trentina e sudtirolese. Giobatta aveva vacche da latte, conigli, pollame, c'era la selvaggina. «La domenica nessuno lavorava, si ritrovavano tutti al rifugio e all'improvviso appariva una fisarmonica».
Il Larezila durante la Grande guerra ospitò il comando militare della zona Lusia-Cima Bocche. Dopo la Seconda guerra mondiale, via al turismo, sempre più di massa. Molti italiani, famiglie a volte che rimanevano al rifugio anche un mese. «Ero bambino ? dice Angel ? e ricordo anche una concertista di pianoforte che veniva qui a riprendere le forze, Maria Grassi di Firenze. Con lei la signora Pasternak. L'azienda la portavano avanti papà e mamma, Enrico ed Angelica. Erano gli anni ?60 e veniva da noi anche il signor Hüppner che era stato comandante in questa zona durante la Grande guerra. Avevamo solo 8 letti e l'unico posto caldo per la cena era la cucina». Si parlava tedesco e italiano e vi si mescolava il ladino. Angel aveva 20 anni quando rilevò la gestione dell'azienda. L'acqua nella casa alta l'aveva portata il padre: lui eliminò il cesso a tonfo e col tempo avrebbe realizzato i più bei bagni da rifugio del Trentino.
Oggi i letti sono sei: «Il nostro mobilio è originale, non l'ho voluto toccare. Se lo modernizzi, gli rubi l'anima. Tante volte vale più un buon quadro e una musica soffusa, magari classica. E il rifugista deve avere una buona memoria e poter dire all'ospite che torna dopo molti anni: "La rivedo volentieri"».
All'inverno Angel fa il maestro di sci, è stato nel Soccorso Alpino. «Sono cacciatore. Il mio trisavolo, poi i bisnonni furono incaricati dal potere di diradare gli orsi su questa montagna». E' un intellettuale dell'Alpe l'Angel e a modo suo un poeta. Che invita l'Apt ad aiutarlo a fare del rifugio anche un ambiente per giorni di pioggia. «C'è magia quando piove. - dice - La gente ritorna anche per quella malinconia o per il posto segreto dei finferli, del mirtillo rosso. E per i luoghi della caccia al cervo». Ma è l'ora del pranzo e il patriarca chiama le figlie, il figlio, e impartisce gli ordini. Noi ci accomodiamo fuori, sulle lunghe tavole in legno, accanto alle tante sdraio "da sole".
Ci porta uno splendido vino Angelica e una polenta che ha il sapore di Larezila, la casa alta. Ci sentiamo in pace, con il mondo e con dio in questa terra ladina che non ha perduto, ancora, tutta la memoria: uno dei presepi dell'identità mitica, e mistica, di un Trentino oggi stanco, che corre il serio rischio di diventare banale.