Al Muse di Trento ci sono due nuove «star». Australopiteche
Due ricostruzioni di Australopitecine (un maschio e una femmina) sono state collocate in questi giorni in modo permanente tra gli allestimenti del piano meno 1 del Muse, dedicato all’evoluzione e nascita della vita. I modelli sono la copia esatta di quelli presenti all’American Museum of Natural History di New York, realizzati sulla base delle impronte scoperte nel sito di Laetoli, in Tanzania, nel 1978. Australopithecus afarensis è una specie di nostri antenati vissuta in Africa più di 3 milioni di anni fa. È la specie alla quale appartiene anche la famosa Lucy, lo scheletro scoperto in Etiopia nel 1974.
Il ritrovamento, oggetto negli anni di diverse e talvolta contraddittorie ricerche, ben si presta come esempio di teorie e interpretazioni scientifiche oggetto di revisioni e implementazioni. Dalle impronte di Laetoli si evince infatti che A. afarensis avesse una locomozione bipede e che, all’interno della stessa specie, ci fosse un elevato dimorfismo sessuale, ovvero una grossa differenza fra le dimensioni maschili, più grandi, e femminili, più piccole.
La scoperta di altre impronte nello stesso sito, nel 2015, ha aperto nuovi orizzonti su alcune interpretazioni del nostro ominino. Ad esempio, sembra che il dimorfismo, già noto, fosse di entità ben maggiore rispetto a quanto identificato con gli studi degli anni ’70 e questo potrebbe portare a una nuova interpretazione, non unanimemente condivisa dal mondo scientifico, sul comportamento sessuale dell’antenato, ipotizzando che non fosse monogamo (come la nostra specie), ma presentasse un maschio dominante circondato da un harem di femmine, come gli attuali gorilla. Le due differenti ipotesi hanno conseguenze diverse sulla nostra percezione circa la “modernità” comportamentale di A. afarensis.
Questo è un bell’esempio di come la scienza – in questo caso la paleoantropologia - sia in continua evoluzione.
Per spiegare le differenti teorie, l’exhibit è corredato da un interessante multimediale che contiene 5 interviste, realizzate ad altrettanti studiosi, in cui si parla di recenti esempi di aggiornamenti scientifici che hanno portato a sostanziali modifiche nel nostro modo di vedere l’evoluzione dell’uomo.
Dopo un’introduzione sul concetto di non fissità della scienza paleoantropologica tenuto da Telmo Pievani (Università di Padova), Giorgio Manzi (Sapienza Università di Roma) ci spiega il ritrovamento delle nuove impronte del 2015. Damiano Marchi (Università di Pisa) racconta la straordinaria scoperta di Homo naledi - una specie di ominine sudafricana mai conosciuta prima del 2013 che complica il già intricato cespuglio dell’evoluzione umana - di cui ci parla in un altro contributo Jacopo Moggi-Cecchi (Università di Firenze). Per finire, Albert Zink, direttore dell’Istituto per le mummie dell’EURAC di Bolzano, spiega l’immenso contributo dato allo studio del nostro lontano passato da Oetzi, la cosiddetta mummia del Similaun che visse in territorio alpino più di 5 mila anni fa.