Don Tino torna in Ciad "Laggiù c'è tanto da fare"
«Sono proprio contento: riparto. Otto settimane sono fin troppe. Le ho prese tutte perché ero molto stanco e faceva tanto caldo».
Otto settimane ogni due anni a casa: questa è la vita del missionario. Magari torna a casa volentieri, ma poi sente il richiamo della «sua» gente, quella di là dal mare, pur nella polvere delle strade sterrate che diventa fango nella stagione delle piogge, pur negli afrori della miseria, pur nel ronzio degli insetti e nel calore che ti sfinisce.
Così don Costantino Malcotti da Storo riparte per il Ciad, terra poco nota a sud della Libia, dove arrivò sei anni fa ed è certo di rimanere almeno per i prossimi tre, avendo appena ricevuto il terzo mandato.
Africa. Non puoi non toccare con don Tino il tema migrazione, che tanto scuote le coscienze e le incoscienze italiche. Ma lui sdrammatizza: «Ho visto il dittatore Idris Deby Itno sedersi al tavolo dei capi di Stato democratici, per cui suppongo che l’Europa abbia constatato l’arrivo di Ciadiani, ma io penso che ne arrivino pochi, per due motivi. Primo, i Ciadiani sono pochi in sé (circa 11 milioni); secondo, per arrivare in Europa ci vogliono 7.000 euro, e un Ciadiano con 7.000 euro è un gran signore e resta qua. Fra l’altro passare attraverso il Ciad è impossibile, perché ci sono molti controlli militari. Per andare in città, dal mio villaggio, passo tre posti di blocco in cento chilometri».
Forse il dittatore sedeva al tavolo dei potenti per motivi meno nobili, vedi la produzione di petrolio. Forse. Petrolio e poi? «Agricoltura», risponde don Tino. «Stiamo cercando di passare da un’agricoltura estensiva ad una intensiva, che produce tre o quattro volte rispetto alla produzione attuale. Il passaggio limiterebbe il bisogno di bruciare nuova foresta: quel poco di foresta saheliana che resta».
Agricoltura intensiva significa macchinari... «Soprattutto fertilizzanti. Il nostro progetto - e quando dice «nostro» si riferisce alla Caritas - guarda al metodo del compost: mescolare letame con paglia e fogliame. Nella stagione secca c’è il tempo di fare il compost, trasformato per il momento in cui serve. In realtà io me ne occupo poco. In Italia è seguito dall’Accri di Trento, mentre giù ci sono un agronomo e due animatori della Caritas. Il progetto è interessante per la contaminazione: è capitato che dei proprietari di terreni vicini a quelli impegnati con noi abbiano imitato il lavoro di chi è nel progetto».
Cotone? «Peccato che la Cotton Ciad non funzioni: ritirano il cotone a stagione delle piogge inoltrata, mentre andrebbe ritirato prima che ci piova sopra. E poi pagano con ritardi enormi, quando pagano. Il contadino non può aspettare due anni: ha bisogno dei soldi».
Siccome non è sufficiente produrre, ma bisogna vendere, «abbiamo dato delle macchine di trasformazione, per non vendere il prodotto grezzo, ma trasformato: non solo arachidi, per esempio, ma olio. Macchine costruite sul posto: magari rudimentali, ma fatte perché possano usarle e ripararle loro. In programma, poi, abbiamo la costruzione di sette magazzini, finanziati dalla Provincia: tre li abbiamo già costruiti. I magazzini servono per lo stoccaggio dei prodotti, così da poterli vendere nel momento buono per i prezzi».
L’obiettivo è chiaro: «Iniziare un progetto che possa essere portato avanti autonomamente. Come la Cooperativa di smercio, avviata dal sacerdote mio predecessore e ora autonoma».
Questa l’attività del missionario? «Il mio lavoro è duplice: per la metà visitare le comunità e verificare ciò che si fa; per l’altra metà la formazione. Io opero in un terreno molto vasto (60 chilometri di parrocchia); per forza la chiesa è laicale: sono i laici a portare avanti la pastorale. Il mio compito è formarli. Adesso c’è un problema serio».
Si anima la voce di don Tino. «Normalmente eravamo due sacerdoti trentini. L’altro ha finito e rientra, perciò sulle mie spalle ci sono due parrocchie per una lunghezza di 120 chilometri. Il vescovo di laggiù continua a chiedere alla Diocesi di Trento di inviare un sacerdote. Ho parlato col nostro vescovo, che mi dice di non averne trovati. In questi due mesi ho girato il Trentino e ho parlato con parecchi sacerdoti, che mi dicono: “Se il vescovo mi manda io sono pronto”». Ehi, sentiamo odore di polemica? Per carità! E’ vero, vivendo in Ciad don Tino auspica che i suoi parrocchiani siano accoglienti come sono, ma meno remissivi, però non si arrabbia. Anzi, quando gli chiediamo se abbia ragione il vescovo o i suoi colleghi fa un sorrisone: «Non so dove stia l’inghippo. Invito i miei colleghi sacerdoti ad inviare la loro disponibilità al vescovo».