Da 19 mesi il corpo di Pojer è «bloccato» a Katmandu
«È come se Marco fosse scomparso due volte, una volta sotto la frana causata dal terremoto... e una seconda volta adesso perché di quei resti recuperati in Langtang non si sa più nulla».
Sono le parole tormentate di Patrizia Pedrotti, la compagna di Marco Pojer, di Grumes, uno dei due alpinisti trentini sepolti sotto una slavina a 3.500 metri di quota lungo il sentiero del Langtang Trek, a nord di Katmandu, e considerati ancora dispersi.
Bisogna tornare indietro di 19 mesi per arrivare a quel 25 aprile 2015 quando il Nepal venne colpito da un devastante sisma che causò più di novemila vittime e distrusse 600mila case. In seguito alle scosse, dall’Everest si staccò un’enorme valanga che cancellò un’intera valle. E in quella zona vennero sorpresi cinque trentini: due si salvarono, Iolanda Mattevi e Attilio Dantone, mentre Oskar Piazza, tecnico del soccorso alpino, impegnato in una spedizione speleologica, Renzo Benedetti e Marco Pojer, perirono nella tragedia.
A recuperare il corpo di Oskar Piazza fu una spedizione guidata da Piergiorgio Rosati, uno dei più preparati ed esperti elicotteristi del nucleo di Trento. Dopo aver recuperato la salma dell’amico, Rosati si fermò un mese in Nepal per trasportare in salvo quante più persone possibili.
Di Pojer e Benedetti si sapeva solo che erano stati sorpresi da una pioggia di pietre e neve, dopo essersi separati da Mattevi e Dantone. Ai compagni di escursione avevano detto di proseguire lungo il sentiero, mentre loro facevano una deviazione per portare dei medicinali ad un’anziana nepalese che avevano già aiutato all’andata.
«Nell’ottobre 2015 viene data la notizia del ritrovamento di alcuni resti con oggetti che appartenevano sia a Marco che a Renzo, insieme ad una terza salma - racconta Patrizia Pedrotti -, e viene effettuata la comparazione del Dna per il riconoscimento formale».
Non basta, purtroppo non si arriva a niente... «La metodica seguita in Italia per l’individuazione del Dna è diversa da quella usata in Nepal, quindi i primi test non sono serviti a nulla: la comparazione non era possibile - continua Patrizia Pedrotti -; i test quindi sono stati rifatti con il kit fatto arrivare dal Nepal, e poi inviati di nuovo a Katmandu. Era il primo febbraio, da allora non si è saputo più niente».
Se non notizie ufficiose, che non fanno che aggiungere incertezza all’incertezza. «Pare che ci sia una corrispondenza molto vicina al 100 per cento, ma per la legge italiana non è sufficiente per un’identificazione certa», riferisce sempre la compagna di Marco Pojer.
«E, intanto, noi siamo in stand by - continua - nessuno ci dice niente, nonostante le sollecitazioni delle famiglie, sia presso la Questura di Trento che tiene i contatti con l’Interpol, sia all’unità di crisi della Farnesina. Non c’è nemmeno una conferma ufficiale sul ritrovamento dei resti».
«Ci sono tante persone che si sono attivate, la stessa Protezione civile trentina si è mossa all’indomani della tragedia per le ricerche con l’elicottero - riconosce Patrizia Pedrotti - e dobbiamo ringraziare tante persone, il pilota Rosati per primo. Ma proprio perché è stata una vicenda molto sentita, adesso io chiedo aiuto perché possa arrivare anche ad una conclusione dignitosa».
Parla per sé Patrizia, ma il pensiero va alle famiglie di Marco e Renzo che sicuramente vorrebbero trovare pace, dando ai loro a cari un ultimo addio e una sepoltura. «Per la nostra cultura - dice la compagna di Marco Pojer - questo rimanere in sospeso è molto pesante. E il peggio è che non si vede una conclusione vicina».