Pizzica due ladruncole in negozio e chiede i danni Commerciante nei guai per estorsione
Derubato e pure condannato.
È la disavventura giudiziaria di un commerciante del centro storico che, all'ennesimo furto di biancheria intima nel suo negozio da parte di ragazze della cosiddetta «Rovereto bene» (non indigenti, quindi), si è trovato in tribunale con la pesante duplice accusa di estorsione e tentata estorsione.
Reati, per capirci, per i quali il pubblico ministero ha chiesto due anni e mezzo di reclusione senza sospensione condizionale della pena. In altre parole, in caso di condanna l'imprenditore sarebbe finito in carcere. Alla fine, però, il gup Riccardo Dies ha derubricato l'imputazione in esercizio arbitrario delle proprie ragioni e il titolare della bottega di intimo si è visto infliggere solo quattro mesi con pena sospesa e non menzione. Insomma, l'aver beccato le ladruncole gli è costato qualcosina in termini penali.
E pensare che i due furti, in fin dei conti, non erano granché: 19,90 euro nel primo caso (autrice un'adolescente) e 47 euro nel secondo (una giovane appena maggiorenne). «Ma sono solo gli ultimi due colpi che ho subito. - ha raccontato in aula il commerciante - I furti incidono per il 3% sul mio fatturato». Ma veniamo all'accusa. Perché estorsione? Perché una volta pizzicate le due ragazze - che avevano tolto le placche antitaccheggio da due indumenti intimi - l'uomo ha voluto parlare con i genitori e ha chiesto un risarcimento di 600 e 800 euro in cambio della mancata denuncia dei furti alla procura. Nel primo caso la mamma ha pagato mentre nel secondo si è rivolta all'autorità giudiziaria che, come detto, ha portato davanti al giudice dell'udienza preliminare il commerciante.
E pensare che, per l'estorsione, il codice penale prevede la minaccia. E i testimoni, mamma e papà delle due giovinette con le mani veloci appunto, hanno riferito in aula non esserci mai stata, anzi l'uomo sarebbe stato gentile nel chiedere il ristoro dei danni. Il discrimine, però, sarebbe proprio sull'entità della richiesta. Eccessiva, per la procura, e dunque più vicina all'estorsione che all'accordo extragiudiziale. Lo stesso imputato, tra l'altro, ha giustificato il conto presentato alle famiglie con la perdita che sarebbe derivata dalla denuncia e dal successivo processo: 6 mila euro tra spese legali, sistema antitaccheggio, impianto di videosorveglianza e, soprattutto, gli stipendi delle due dipendenti chiamate a testimoniare che l'avrebbero costretto a chiudere il negozio per almeno tre ore. L'esborso per il, chiamiamolo così, «disturbo» avrebbe dunque superato di gran lunga il danno subito.
E la perdita dovuta alla denuncia, per capirci, è stata certificata da un perito. Così, tra i seimila euro, secondo il negoziante, da versare per seguire l'iter processuale e il 3% del fatturato che, sempre secondo il diretto interessato, se ne va ogni anno per colpa dei furti con destrezza di capi di abbigliamento intimo era molto meglio chiudere tutto con la richiesta di un risarcimento forfettario. Che per la procura, come detto, sarebbe un'estorsione mentre per il giudice un più banale esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Ipotesi di gran lunga più lieve, certo, ma rimane pur sempre un reato. I furti tra gli scaffali, comunque la si voglia vedere, rimangono però dei fastidi enormi per gli operatori del commercio. Tantopiù se ad allungare le mani sulla merce esposta non sono persone che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena ma giovani «normali», con tanto di paghetta mensile ma con l'irrefrenabile desiderio di prendersi, a prescindere (come direbbe Totò), l'oggetto del desiderio.
Della serie quella cosa mi piace e me la porto a casa. Roba da sociologi e pedagoghi, insomma, più che da giuristi. Anche se rimane il dubbio sul discrimine tra estorsione ed esercizio arbitrario: qual è la cifra da chiedere per evitare di finire in galera?