Il primario di rianimazione: "Mai dovuto decidere chi intubare e chi no"
Nel pieno dell’emergenza erano 29 i posti occupati in terapia intensiva al Santa Maria del Carmine di Rovereto ora sono diminuiti di molto e Giovanni Pedrotti, primario dell’equipe che lavora nel cuore del Covid-center, ammette un cauto ottimismo. Ma è soddisfatto soprattutto di una cosa: «Non abbiamo dovuto scegliere chi intubare come è accaduto in altre realtà». E questa era una delle più grandi paure di chi si è trovato a fronteggiare un nemico sconosciuto qual è il coronavirus.
Dottor Pedrotti, comincio col chiederle come sta ad un mese dall’inizio dell’emergenza.
Sono stanco, ma sto bene.
Vediamo i casi che calano e questo ha un effetto positivo su tutti nel reparto, genera un po’ di ottimismo. Soprattutto l’idea di non essere più al limite delle nostre possibilità. Ma questo lo diciamo comunque sottovoce e con le dita incrociate, perché non vorrei che l’allentamento dovuto a queste festività non avesse un rimbalzo...
Sta andando come previsto?
Direi che per come era andata fino alla scorsa settimana temevamo che la curva di discesa fosse meno ripida rispetto a quanto era stato inizialmente ipotizzato. Avevamo continuato a spostare il picco a fine marzo, al primo week end di aprile, poi al secondo e vedevamo che questo picco non scendeva.
Ora, al di là del numero di tamponi che sono comunque aumentati e vanno considerati in percentuale, in terapia intensiva siamo scesi sotto i venti pazienti e non succedeva da metà marzo. In alta intensità siamo sempre sul massimo dei casi ma senza quella pressione che c’era la settimana prima di Pasqua, quando aumentavano ancora e c’era il timore che arrivassero ancora in tanti.
Quanti pazienti siete arrivati ad ospitare?
Siamo arrivati al massimo a 29 e ora siamo a 18 (13 aprile), Ndr.
Significa che non ci sono peggioramenti e stiamo dimettendo via via quelli che erano qui da più giorni. Ne trasferiamo un paio al giorno in medicina alta intensità, la nostra valvola di sfogo. Qualche volta mi sono trovato nella situazione di non poter dimettere dei pazienti perché in alta intensità era tutto pieno. Per questo ora inizieremo con sei posti in cardiologia: sono pazienti monitorati, a livello di semi intensiva dove si può fare la ventilazione non invasiva, con paziente sveglio e non intubato. Aumentiamo la possibilità di liberare posti in alta intensità e ci prepariamo alla fase in cui potremmo togliere qualche sala operatoria dall’area Covid e destinarla ai pazienti che devono essere operati. Non so quando, perché noi siamo stati i primi ad iniziare e saremo gli ultimi ad abbandonare questa mission. Ma il mondo va avanti e i pazienti non Covid ci saranno sempre di più e torneranno a bussare alla nostra porta. Ci dovremo preparare ad un progressivo ritorno alla normalità.
Come sta il personale del suo reparto, avete avuto contagiati?
Il personale è sempre stato esemplare: ha dato una disponibilità assoluta di giorno e di notte, rinunciando a riposi, a ferie. Ovviamente gioca un ruolo dal punto di vista psicologico sapere che questi pazienti a cui dedichi tutto te stesso alla fine guariscono.
E questo è il risultato tangibile del nostro lavoro. Abbiamo avuto due persone con sintomatologia lievissima che sono risultate positive al tampone: una ancora alla fine di marzo e una recentemente, ma qui girano 130 persone al giorno. Questo dimostra che le attenzioni che abbiamo avuto sono state adeguate anche perché non c’è la certezza che lo abbiano preso qua il virus.
È molto probabile, naturalmente, ma non abbiamo un dato assoluto. È comunque una percentuale bassissima: se fosse venuto a mancare il personale saremmo stati davvero nei guai.
Tornando ai pazienti, si può dire che l’organizzazione del lavoro ha funzionato?
Come terapie intensive del Trentino siamo riusciti ad avere sempre, anche quando c’era la marea montante con sette otto ricoveri al giorno, qualche margine di posto letto libero. Questo perché nei giorni precedenti, ipotizzando l’afflusso, creavamo nuovi posti e quindi non abbiamo mai dovuto decidere chi intubare, come invece è accaduto in altre realtà.
Merito della programmazione?
È stato un grande lavoro di equipe: dalla direzione aziendale in giù. I servizi tecnici ci hanno supportato, ci portavano il materiale quando dovevamo aprire nuove sale. Tutti hanno fatto la loro parte. Il personale sanitario ma anche la popolazione. Non ci è mai mancato nulla: i pranzi, le cene, le torte, le colombe. È stata una vera gara di solidarietà, compresa la raccolta fondi. Abbiamo lavorato tutti insieme per un obiettivo comune, ognuno con le proprie competenze e responsabilità.
Un lavoro di squadra allargato, insomma.
Che messaggio vuol mandare ai trentini in vista della ripresa?
Bisognerà essere molto accorti sulle riaperture, anche guardando quello che succede in Cina, e stabilire quali attività possono ripartire. Non certo quelle che coinvolgono molte persone.
Un po’ di distanza sociale la dovremo mantenere. Manifestazioni in cui si accalcano le persone credo non debba dircelo nessuno che non vanno bene, si capisce. La gita fuori porta della famiglia, invece, senza creare assembramenti in ristoranti o rifugi, è possibile ma sarà difficile regolarla. Sfruttiamo la caratteristica orografica della nostra terra e i trentini potrebbero dimostrare che, usando il buon senso, si può lentamente tornare alla normalità.
Finché non ci sarà un vaccino sicuramente dovremo stare molto attenti, soprattutto con categorie più sensibili come gli anziani. Anche perché tra un mese e due non avremo più le stesse forze, perché non si può vivere sempre in emergenza.