Lo sfogo di un'infermiera del reparto covid «Eravamo gli eroi, ora abbiamo i posti occupati e la gente pensa a shopping e pranzi coi parenti»
«A marzo eravamo eroi, ora capita perfino che ci accusino di portare in giro il virus. Ma andiamo avanti, cercando di fare del nostro meglio». Chi parla è un’operatrice socio sanitaria che lavora all’interno del reparto di rianimazione per degenti Covid all’ospedale di Rovereto, l’unità di terapia intensiva a cui afferiscono pazienti da tutto il Trentino. Un lavoro, come si dice, in prima linea, in cui sia le procedure complesse che la gravità dei malati, esigono grande impegno, sia fisico che psicologico, a tutti i livelli.
Come sta andando questa seconda ondata?
«In primavera eravamo stati presi alla sprovvista, ora all’interno dell’ospedale c’è più organizzazione a livello procedurale; e anche nel vestirsi e svestirsi c’è più pratica, più manualità, più coscienza di quel quello che si fa. Anche i tempi di ricovero erano più lunghi, arrivavano fino a sei settimane. Di contro, ora siamo più esasperati: siamo partiti con questi ritmi il 7 novembre, e la sensazione è che ne avremo per diversi mesi, il virus è ancora molto diffuso. I turni sono faticosi, vedo anestesisti che coprono anche diciotto ore di seguito, e tutti i 20 - 21 letti sono sempre pieni, di gente sempre più giovane. Nel corso della prima ondata c’erano molti grandi anziani, ma da un paio di settimane arriva gente sui settant’anni, e anche uno di 62».
Vi aspettavate il ritorno della pandemia in autunno?
«Un po’ sì, ma essendo ottimista cronica, speravo che sarebbe accaduto qualcosa che ci avrebbe risparmiato ulteriori emergenze. Dentro di me, e anche guardando quello che accadeva in giro, temevo che ci sarebbe stata questa seconda ondata, e adesso si parla addirittura della terza».
Quella conseguente alle feste di Natale?
«Il rischio è molto alto e alle volte la percezione è che si stia sottovalutando la cosa. Bisogna essere cauti, magari organizzando cene, con poche persone, scaglionate».
Come siete organizzati in ospedale?
«Rianimazione è stata allargata per comprendere una parte del blocco della sala operatoria. L’assistenza è garantita con un infermiere ogni due pazienti e ogni oggetto è ripetutamente significato, c’è odore di cloro e antibatterico dappertutto .Lavoriamo in ambienti che originariamente non erano predisposti per le cure intensive, e così ci si deve inventare tutto, c’è sempre un ingegnarsi».
E dal punto di vista umano?
«Continuiamo a parlare con un paziente, anche se sedato con il tubo, accompagnamo i gesti con le parole. Mi è capitato addirittura di gestire una salma, e anche in quel caso abbiamo avuto cura e attenzione. Per fare sentire ai pazienti la vicinanza dei loro cari c’è l’applicazione “vicino a te” che permette di mandare e-mail, foto e messaggi come “Ti aspettiamo per Natale”. Noi li stampiamo e li attacchiamo vicino ai letti. Questo non è solo un lavoro tecnico - anche se ricomporre l’unità letto, gestire i ferri e le mascherine, resta un fattore importante - ma cerchi sempre una strategia per migliorare lo stato d’animo delle persone che ti stanno intorno. Per i pazienti è dura: ci sono quelli che sono vigili e hanno il terrore negli occhi quando vedono i loro vicini di letto intubati, e allora parliamo, li consoliamo, a volte usiamo la musica. Capita che quando sei dentro non ci pensi, però quando poi esci ti senti svuotato, nervoso».
Siete provati?
«Il carico fisico adesso sta venendo fuori, e psicologicamente si fa sentire. Quando sto a casa un paio di giorni, al momento di salutare un paziente mi domando se lo ritroverò al mio rientro: è dura. Per fortuna c’è anche chi migliora e cambia reparto: salutano e ringraziano, e questo ci fa stare bene. Quello che invece ferisce è il fatto che, mentre prima eravamo addirittura eroi, ora è successo sia a me che ad altri colleghi, che ci dicessero che siamo pericolosi perché portiamo il virus fuori dall’ospedale. Ed è assurdo, perché le procedure sono dettagliate: a volte mi sento più sicura in reparto che non quando sono in giro».
Come funziona la pronazione, ovvero mettere un paziente a pancia in giù? E i caschi?
«Viene disposta dai medici perchè ha degli effetti importanti, e comunque è un procedimento complesso: dobbiamo essere in cinque per poterlo fare, e ogni dettaglio è importante, dal collirio per evitare che gli occhi si secchino al lenzuolo ben tirato perché anche una piccola piega crea un sacco di problemi. L’uso del casco provoca attacchi di panico, ma quando i malati respirano meglio, si tranquillizzano».
Non ti capita di pensare di vivere due realtà parallele, da una parte chi lotta tra la vita e la morte e dall’altra chi pensa alla settimana bianca o ai regali di Natale?
«La cosa peggiore sono i negazionisti. Ho sentito delle porcate assurde ma cerco sempre di lasciare tutto nell’armadietto, sia quando vado a lavorare che quando poi torno a casa. Un giorno un collega ci ha guardato e ci ha detto: “Avete una faccia senza espressione”. Tra di noi ci sono persone che prendono psicofarmaci, c’è chi non riesce a dormire la notte, sta male. Io reagisco facendo passeggiate, e poi provo a non ascoltare le cavolate che vengono dette. Per alcuni è un complotto, dicono che tutti gli anni muore qualcuno e che questa è un’influenza come le altre, ma io non ho mai visto una distesa di persone intubate come questa. Faccio questo lavoro da oltre dieci anni, ma non mi sono mai trovata in una situazione del genere».
Cosa ti ha lasciato questa pandemia?
«Dopo che abbiamo visto quello che è successo in Cina, ora non è più possibile dire che le cose che sono lontane non ci riguardano. La pandemia dovrebbe insegnarci una solidarietà più estesa».