A 23 anni Francesca Tronconi è volontaria nella città di Gaziantep: «La terra trema ancora»
Nella città a ridosso dell’epicentro del devastante terremoto che ha causato oltre 45 mila vittime (alla data di oggi, sabato 18 febbraio), è giunta per l’Erasmus+. Ora il centro di multiculturalità per profughi è diventato un rifugio che ospita gli sfollati
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ROVERETO. Si trova a due passi dall’epicentro che ha strappato al mondo oltre 45 mila persone (al 18 febbraio 2023), un terremoto devastante che ha colpito la Turchia e la Siria.
Era lì come volontaria per un progetto con i profughi siriani ma ha dovuto cambiare rotta e trasformare quel lavoro in un altro mestiere. Facendo leva anche su quanto ha studiato a Rovereto. Lei è Francesca Tronconi, 23 anni, una laurea in psicologia cognitiva e membro del direttivo di Artea, l'associazione roveretana di danza fondata da Elisa Colla.
«Sono arrivata qui in Turchia il 16 gennaio. Ora mi trovo nel centro giovani di Gaziantep che è stato adibito a centro per sfollati. Ci occupiamo di pulizia, distribuzione cibo ma soprattutto animazione per bambini. Prima eravamo in 20 ora siamo almeno il doppio ma subito dopo il terremoto la situazione era invivibile».
Gaziantep è la città dei profughi siriani?
«Sì, ne accoglie mezzo milione. Io sono venuta per un progetto di volontariato proprio con i migranti, per l'educazione non formale, l'intrattenimento per bambini, ragazzi e adulti sia turchi che siriani. Erano giochi con l'inglese e anche zumba-yoga. Per noi era importante insegnare la multiculturalità anche perché i profughi siriani a Gaziantep non possono uscire dalla città».
Poi è successo il finimondo e voi siete a due passi dell'epicentro?
«Già, col terremoto tutto è stato rivoluzionato: teniamo bambini sfollati e un altro gruppo toglie e monta tende nei dintorni a seconda della necessità».
Come è stato il giorno del cataclisma?
«Non abbiamo realizzato subito: tutto si muoveva. Tremo ancora a pensarci: io dormo nel posto in alto di un letto castello, improvvisamente ha iniziato a tremare tutto, sentivo il letto che si spostava e ho visto il lampadario che si muoveva sempre di più da una parte all'altra. In altre stanze si sono rotte le finestre e i vetri».
«Anche scendere le scale è stato difficile: eravamo impanicati, siamo corsi scalzi in cortile, nella neve fresca. Di fianco a noi è caduta la cupola della moschea ottocentesca e parte della torre. E poi in giro abbiamo visto case distrutte. Allora ci siamo resi conto di cosa sta succedendo. Per tutto il giorno dopo siamo stati in uno stato confusionario, continuavano le scosse, il meteo non aiutava perché tra pioggia e neve era impossibile fare qualcosa. Quanto sei sconvolto lo capisci nei giorni dopo, gli occhi non si chiudono quando tenti di dormire».
La vostra struttura, però, ha tenuto?
«Sì, qui è sicuro. Penso che la devastazione più grande sia stata in periferia: nei villaggi non ci sono più case».
Cosa le impressiona di più, a dieci giorni dal sisma?
«I volontari locali che arrivano con le facce distrutte: c'è chi ha perso parenti, amici, la casa. Sono in lacrime e tocchi la tragedia nei loro occhi. C'è un ragazzo turco che lavora con noi che ogni giorno arriva col bollettino: ha studiato ad Ataj, la città più colpita, ed ha perso più di un centinaio di amici e insegnanti. Non ci sono più».
Ed ora come si vive, cosa si percepisce dopo che la natura si è sfogata con così tanta violenza?
«È difficile anche per noi: è spaventoso, tremiamo ancora. Anche perché le scosse non finiscono mai. Ogni due per tre facciamo i controlli, guardiamo se il lampadario dondola o se l'acqua si muove».
Il vostro centro, adesso, si è aperto anche agli altri sfollati?
«Sì, abbiamo accolto subito anche abitanti del luogo che erano in difficoltà. Qui eravamo in venti ora siamo molti di più: abbiamo adibito la cucina anche a dormitorio, mettendo i materassi a terra. Abbiamo ovviamente organizzato banchetti per distribuire aiuti, sono venute anche persone che girano scalze, altre che chiedevano abiti e un posto dove stare. Sono le fasce più povere che risentono di più della situazione, ma comunque anche la popolazione un po' più benestante ha sofferto case danneggiate e inutilizzabili».
Gaziantep è proprio a ridosso del botto. In giro sarà un disastro.
«È così. Abbiamo fatto un giro qui nei dintorni, per verificare la situazione, ma ci hanno chiesto di rimanere in casa perché le scosse non sono affatto finite, ce ne sono tre-quattro al giorno e anche di più. Una nostra volontaria è andata in avanscoperta in una cittadina di campagna, Islahiye, per un primo contatto. Ci stiamo organizzando per fornire assistenza, dal cibo al rifugio e poi ovviamente umana, psicologica, specie con i bambini. Qui ci sono persone che dormono nei ristoranti, nelle moschee, basta che ci sia un posto al chiuso. I ragazzi che partecipano alle nostre attività ci scrivono per chiedere aiuto».
La sensazione peggiore?
«L’abitudine. Ormai, è brutto dirlo, si vive davvero come fosse la normalità: le scosse piccole, che sono pure sempre di grado 4.5, sembrano normali. Ogni tanto non c'è acqua, va via la luce e poi torna ma la nostra casa è sicura, la sentiamo sicura. Siamo fortunati, nessun lamento rispetto al dramma che c'è in giro».
Perché ha scelto la Turchia per il servizio di volontariato internazionale?
«Questa estate ero venuta qui per un progetto ambientale, sulla costa orientale della Turchia. Sono rimasta in contatto e volevo tornare per un progetto di carattere più sociale, come quello di Geged che stavo portando avanti fino al terremoto e che si dovrebbe concludere il primo di marzo. La mia intenzione, però, è di rimanere qui ancora e portare un aiuto attivo alle persone che hanno bisogno dopo questa immane tragedia. Sempre se la mia presenza sarà un aiuto reale e non un peso».