L'addio di Prodi e il suicidio del Pd
Aldo Civico: «Il Pd da una parte dei suoi dirigenti preferisce dare priorità (e non da oggi) alla gestione del potere piuttosto che alla politica con la P maiuscola, ai meschini interessi di corrente, piuttosto che al bene comune del partito. È il parricidio di Prodi. Ma questo parricidio è, come in molti sostengono in queste ore, anche il probabile suicidio del Pd?» Pd finito? Dite la vostra
Venerdì scorso ero di passaggio a Bologna, e sono andato a prendere un caffè a casa di Romano Prodi. Con l'occasione, gli ho chiesto se c'era del vero dietro alle chiacchiere sempre più insistenti circa la sua intenzione di abbandonare il Pd. «È solo un gossip o davvero stai pensando di lasciare il Pd?», ho chiesto a Prodi. «È un gossip fondato», mi ha risposto senza esitazione. Ha preso atto e ha allargato le braccia di fronte a quei 101 e più del centro-sinistra che non l'hanno voluto al Quirinale: un fatto politico inequivocabile.
Sandro Gozi, che dell'ex premier fu la mano destra in Commissione Europea, consolida quel gossip in ripetuti cinguettii su Twitter, suggerendo che a lasciare non dovrebbe essere Prodi, bensì quei 101 traditori. L'eventuale, e penso probabile, ritiro dal Pd non è l'eclissi di Romano Prodi, ma piuttosto quello di una visione politica.
Per tantissimi della mia generazione, Romano Prodi ha rappresentato la speranza concreta di poter rinnovare la cultura e la prassi della politica italiana. Io appartengo a una generazione che era ancora bambina, quando le Brigate Rosse sequestrarono e uccisero Aldo Moro. «Il pomeriggio ho acceso la televisione e a sentire che Moro era morto non ci credevo», scrissi in un temino di terza elementare e che ho ritrovato proprio in questi giorni dopo trentacinque anni.
Ero in prima fila al Gran Hotel Trento, nell'agosto del 1990, quando Leoluca Orlando e Lorenzo Dellai (che fece il primo passo, ma poi ci ripensò), lanciarono il progetto politico de La Rete. Da Trento mi trasferii a Palermo, dove al fianco di Orlando, ho visto svilupparsi il rapporto tra Orlando, Nando Dalla Chiesa, Diego Novelli, Alfredo Galasso e altri, i quali, mossi dall'urgenza della questione morale, poi scoppiata con Mani Pulite, costruirono un inedito e ardito progetto, fondato sull'intreccio di storie personali e di percorsi politici diversi: quell'esperienza ha anticipato la nascita del centro-sinistra, contribuendo a prepararne il terreno.
Ero a Palermo, a poche centinaia di metri da Via D'Amelio, in compagnia del gesuita Ennio Pintacuda, mentre lavoravamo alla sua autobiografia, quando un'autobomba uccise il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta: oggi quell'attentato è diventato un tragico simbolo dei colpi di coda di un'agonizzante Prima Repubblica.
Alla metà degli Anni Novanta, mentre terminavo gli studi a Bologna, la domenica, dopo la messa in Via Santo Stefano, vedevo (e ascoltavo) Romano Prodi e Beniamino Andreatta commentare i primi gemiti dell'Ulivo, e quindi l'approdo di Prodi e del centro-sinistra a Palazzo Chigi: si respirava aria di rinnovamento, di mandorli in fiore per la politica italiana.
Qualche anno più tardi, nel 2007, accompagnai il presidente del Partito Democratico americano, Howard Dean, ai congressi conclusivi dei Ds a Firenze e della Margherita a Roma, dalla cui confluenza è poi nato il Pd, di cui Prodi è stato il primo presidente.
Ed ora vedo Romano Prodi rimuginando seriamente l'idea di ritirarsi dal Pd. È tra l'altro, ironia della sorte, un 17 maggio: l'anniversario di quando Romano Prodi si insediò a Palazzo Chigi nel 1996.
Per uno della mia generazione, ce n'era a sufficienza per riflettere e rimuginare. Romano Prodi l'ho sempre considerato e vissuto non solo come un leader politico, ma come la persona che a livello nazionale è riuscita a dare forma e contenuto all'intuizione che fu di Aldo Moro del compromesso storico, riuscendo così a proporre un'originale sintesi tra le culture riformiste della sinistra e del cattolicesimo democratico. Ed è stata questa visione, quando fu incarnata da Prodi, che in questi ultimi venti anni è stato l'unico vero ed efficace argine contro Silvio Berlusconi e la politica del tutto vale. È stata questa visione che ci ha tenuto ancorati all'Europa. Furono anni allo stesso tempo difficili ed esaltanti per il centro-sinistra, e per chi ha sempre creduto possibile il rinnovamento della politica italiana.
Ecco perché, dunque, un Prodi che sta seriamente meditando di dire addio al Pd, offre anche una metafora dell'abisso nel quale il centro-sinistra si è cacciato oggi. Perché quanto accaduto a Prodi durante l'elezione per il presidente della Repubblica, è stato il risultato dell'azione non dell'opposizione di Berlusconi, ma di una componente, numericamente importante, dello stesso Pd che (per ben la terza volta!) ha scelto di scartare e rinnegare il proprio genitore.
Il Pd ha così confermato che una parte dei suoi dirigenti preferisce dare priorità (e non da oggi) alla gestione del potere piuttosto che alla politica con la P maiuscola, ai meschini interessi di corrente, piuttosto che al bene comune del partito. È il parricidio di Prodi. Ma questo parricidio è, come in molti sostengono in queste ore, anche il probabile suicidio del Pd?
Visto da una prospettiva americana, non è logico pensare che il tradimento dei 101 causi anche la morte del Pd. Non è perché un nutrito gruppo di clintoniani, come l'allora governatore del Nuovo Messico Bill Richardson, tradì Hillary Clinton per sostenere Barack Obama, che il partito democratico si è dissolto, o che la Clinton abbia pensato di formare un nuovo partito. Nella storia del partito democratico americano sono cambiate le leadership, le persone, le alleanze, ma non s'è mai immolato il partito in sé. Il partito democratico americano ha saputo trasformarsi, ma non è imploso. Sarebbe impensabile. Quando l'egemonia repubblicana durante la presidenza di George W. Bush sembrava inossidabile, fu l'ex governatore del Vermont Howard Dean a costringere il partito a ripensarsi e a riorganizzarsi, aprendolo alla partecipazione dei suoi membri, e rafforzando la sua presenza anche in quegli stati dove tradizionalmente negli ultimi quarant'anni aveva sempre vinto il partito repubblicano.
Fu Dean da presidente del partito democratico, che con la sua azione innovatrice gettò le basi per la vittoria di Barack Obama e assicurò un Congresso a maggioranza democratica nel 2008. Il partito repubblicano ancora non si è ripreso dal risveglio del partito democratico, e oggi brancola nel buio, sempre più ostaggio dell'ala più estremista della destra americana. Se applichiamo all'Italia la lezione degli Stati Uniti, il tradimento di Prodi, non dovrebbe significare la fine del Pd, ma semmai il suicidio politico di quei 101 che hanno voluto il parricidio.
Il vero tema per il Pd, non è di scinderlo o scioglierlo, ma piuttosto di trasformarlo e rinnovarlo nella sua leadership e nella sua spinta propulsiva, chiedendo ai capi corrente di smetterla con gli interessi particolari, gli obiettivi meschini, le logiche di apparato, e con le fondazioni private, per costruire invece tutti insieme una visione politica che proponga una nuova sintesi delle forze rinnovatrici del nostro paese, al passo coi tempi e le sue urgenze; o in alternativa, chiedendogli di andarsene, per non ostacolare l'emergere di un rinnovato e vigoroso centro-sinistra.
Aldo Civico
È professore di antropologia e fondatore dell'International Institute for Peace
presso la Rutgers University nel New Jersey