Addio al primo oste del bar dei Cavai
Un pezzo di storia trentina è stata archiviata venerdì. A spegnere la luce su un mondo che per decenni ha interpretato la vita da osteria alla perfezione è la scomparsa di Guido Fedel, primo oste del bar dei Cavai. Quel locale atipico all'imbocco di via San Martino è stato per 40 anni la sua casa. Era lui a menare le danze dietro il lungo bancone in un posto dove le sedie erano bandite perché, appunto, si stava in piedi come i cavalli. In quel posto proprio sotto la Torre Verde Guido ci aveva messo piede, per lavorare, ancora da «bocia». Era un'epoca dura, quella, anno del Signore 1946, con la guerra appena lasciata alle spalle e un'Italia da ricostruire da cima a fondo, rimboccandosi le maniche tutti assieme, a prescindere dal partito e dal credo. Era un «ambiente», come si diceva allora, dove si celebravano gli ultimi scampoli di ordinaria trentinità, di quella di un tempo, ruvida e un po' sbracata ma fondamentalmente sana. Era la trentinità del «bicerot», tradizionale collante sociale, una scusa per stare assieme. Dentro c'erano spaccati di umanità varia: muratori dalle mani callose, imbianchini dalle tute imbrattate, meccanici in pausa bicchiere, impiegati con la cravatta a posto, imprenditori, pensionati, disoccupati, qualche barbone, vecchi dall'età indefinita che potevano anche essere giovani e giovani che potevano benissimo essere vecchi. Li accomunava il piacere del teroldego e il bere in piedi, come i cavalli appunto. E, non a caso, da sempre campeggia l'insegna «Scuderia del Teroldego», un simbolo di quella storia.
Guido Fedel, come detto, ha vestito i panni di oste dall'apertura sino alla pensione nel 1987. «Era il lunedì di Pasquetta. - ricordava qualche anno fa - Sono passati tutti: commercianti, operai, artigiani, autisti del trasporto pubblico e conduttori dei carri per il trasporto merci. Ma c'erano anche politici e artisti e perfino i barboni che venivano da piazza Mostra o da via Dogana e attendevano di racimolare qualche spicciolo scaricando i camion». Il vino, in bicchieri da un ottavo, usciva dalla «spina» solo grazie ad un sistema con pressione ad acqua. E Fedel, su questo, ironizzava: «Senza acqua non potevamo avere nemmeno il vino». E i ricordi se l'è gustati fino alla fine, compresi i visi rubizzi e le gote scavate che sono passati di lì. E soprattutto i soprannomi fantasiosi figli di un'altra storia legata ai Cavai, il «Club redicoi, reversi e policarpi», in pratica una parte di arredamento per anni dell'osteria.