Tanti auguri a Gios Bernardi, un secolo di vita vissuta da protagonista
Nato a Bolzano il primo gennaio 2023, oggi spegne 100 candeline. In un’intervista a L’Adige ha raccontato del regime fascista, con l’università di medicina sotto le bombe, ma anche della fondazione del “Premio Pezcoller” e dell’infinita passione per l’arte e la fotografia
TRENTO. Cento anni da celebrare oggi, primo gennaio 2023. Cento anni che lo hanno visto attraversare la storia. Tanti gli snodi cruciali: l'impegno antifascista della sua famiglia, l’università di medicina frequentata sotto le bombe. E poi, le radiografie eseguite senza protezione negli anni dell’ospedale militare. Negli anni Ottanta, la fondazione del Premio Pezcoller. E ancora, l’impegno civico, l’amore per la fotografia e per l’arte.
Ci vorrebbe un libro per raccontare la vita di Gios Bernardi, noto medico trentino nato a Bolzano nel 1923 e padre di Marco, a lungo direttore del TSB.
Dottor Bernardi, lei cresce sotto il fascismo, che ricordo?
Mi vengono i brividi, anche ricordando il profondo antifascismo della mia famiglia. Purtroppo il fascismo c'è ancora, nella forma della nostalgia e di atteggiamenti che speravo di non vedere più. Mi rattrista e mi inquieta.
Frequentò l'università nel pieno della Seconda Guerra Mondiale.
Iniziai a Milano, ma fui trasferito a Padova perché cadevano le bombe. Poi le bombe arrivarono anche a Padova. Ricordo il periodo dell’Ospedale militare, facevo le radiografie senza protezioni ed oggi il mio volto ne porta i segni. Inizialmente avrei preferito fare legge per seguire le orme dei miei zii avvocati, uno fu deputato all'Assemblea costituente per lo Psiup, medaglia d’oro alla Resistenza. Poi la medicina mi ha conquistato ed ho applicato sempre il valore dell'empatia.
Venendo al presente della pandemia, che effetto le ha fatto vedere i sacrifici dei medici?
Chi sceglie di fare il medico sa di dover affrontare situazioni dolorose. Ricordo quando ero in chirurgia, ci fu un incidente che coinvolse un pullman di ritorno dal Bondone, fu un momento che non ho mai dimenticato. Il medico sa che dovrà affrontare situazioni di emergenza.
Ha sempre rivendicato il suo essere curioso. È questo che l'ha avvicinata all’omeopatia?
La mia è una curiosità che finisce persino nell'inquietudine esistenziale. Il mio interesse verso l'omeopatia è stato limitato nel tempo e nasceva dal fatto che nell'omeopatia c'è un rapporto molto intenso con il paziente. È questo che mi interessò. Oggi molti omeopati negano il valore delle vaccinazioni e mi cadono le braccia. In Trentino e in Alto Adige si registra una grave penuria di medici. È mancata un’attenta valutazione del futuro, non si è pensato a come rimpiazzare i medici che andavano in pensione. Si sarebbero dovute allargare le possibilità di inserimento dei medici giovani ma è mancata la visione.
Lei ha contribuito a fondare il premio Pezcoller. Com'è evoluta la lotta contro i tumori?
C’è stata una grande crescita culturale. Fui io a proporre che il Pezcoller fosse dedicato alla ricerca oncologica. La decisione risultò sgradita a molti: i medici trentini pensavano al loro reparto, non si preoccupavano degli imprevedibili sviluppi della medicina molecolare. Ospitare a Trento il “Nobel” dell’oncologia sembrava una follia. Oggi invece ci sono poli di ricerca di avanguardia, grazie al Cibio e all'Università.
Cosa pensa degli ospedali periferici?
L’ospedale principale deve essere nel capoluogo, mentre negli ospedali periferici devono esserci i servizi essenziali. La medicina è sempre più sofisticata, è impensabile che nelle vallate si possa fare esperienza sui casi difficili. Si investa piuttosto sulle modalità di trasporto adeguate per le persone che necessitano di cure più complesse. Cerchiamo di razionalizzare il sistema. Ma questo va contro la raccolta di dividendi politici.