Senato eletto dai cittadini, la minoranza Pd insiste
Cammina su un crinale molto sottile l’intesa all’interno del Partito democratico sulla riforma costituzionale. I presupposti per un accordo ci sono e l’ipotesi più ‘quotatà è ancora quella che alla fine si trovi un punto di incontro. Ma il risultato non è ancora blindato e neanche scontato. Anche perch Pier Luigi Bersani respinge la prima ipotesi di mediazione sul testo: «Va scritto che il Senato è elettivo. Da qui non ci si scosta», dichiara. E scatena l’ira dei vertici del Pd: «Non capisco questa posizione. Sembra che voglia irrigidire le posizioni per rompere. Andremo avanti con spirito di apertura ma non accettiamo veti», afferma Lorenzo Guerini.
Matteo Renzi, nella sua rubrica di posta su l’Unità, ricorda che le riforme «fanno ripartire il Paese» e che il Pd ha la «grande responsabilità di riportare l’Italia alla testa dell’Europa». Perciò «sto provando con tutto me stesso», assicura, a evitare che il partito finisca per «dilaniarsi». Ma, ragionano i renziani, per trovare un’intesa ognuno deve cedere un pò. Dunque le regole di ingaggio le mette in chiaro il ministro Maria Elena Boschi: è possibile discutere su modifiche al comma 5 dell’articolo 2 del ddl costituzionale, intervenire cioè sull’unico passaggio sulla composizione del Senato che era stato modificato alla Camera, ma non ci si può spingere oltre.
Perché, spiega Ettore Rosato, «quanto già votato con doppia lettura conforme non è più modificabile».
Ma qui rischia di incagliarsi il confronto con la minoranza Pd. Il «lodo» cui lavora la presidente Anna Finocchiaro con il ministro Boschi e il sottosegretario Luciano Pizzetti prevede infatti di mantenere invariato il comma 2 dell’articolo 2, in cui si afferma che «i Consigli regionali eleggono i senatori tra i propri componenti» e aggiungere al comma 5 che nel farlo i Consigli «recepiscono le indicazioni degli elettori». Ma per la sinistra Dem non basta che i cittadini «indichino» i senatori: bisogna mettere per iscritto che li «eleggono», in modo che sia chiaro che quella dei Consigli regionali è solo una ratifica. La richiesta è però irricevibile per la maggioranza, perchè al comma 2 c’è scritto che a «eleggere» sono i Consigli regionali e quel punto non può essere cambiato. Inoltre la minoranza Dem chiede anche che il sistema di elezione sia definito da una legge elettorale nazionale e non regionale, come invece prevede la proposta della maggioranza. E Bersani ripropone la riduzione del numero dei deputati. Un rilancio al tavolo della trattativa.
Quella dell’ex segretario e della sinistra Dem è una richiesta di «semplicità e chiarezza», dice Federico Fornaro.
«Vogliamo tutti andare avanti ma vogliamo far bene», afferma Roberto Speranza. Ma il ministro Boschi avverte: «Non ci sia la tentazione di ricominciare da capo, altrimenti ci ri-infiliamo nell’immobilismo all’italiana». «L’accordo è vicino: no a impuntature e radicalizzazioni», dice anche Matteo Orfini.
Mentre diversi parlamentari della maggioranza esternano il sospetto che Bersani «non voglia l’accordo», attratto dal «richiamo irresistibile» di far prevalere «divisioni e ideologia». Se così stanno le cose l’ex segretario, avvertono i renziani, rischia di far saltare tutto. E allora, suggerisce Roberto Giachetti a Renzi, «perchè non andare subito a votare?».
Ma il tempo non è ancora scaduto. Tanto più se si considera che in ogni caso, come ricorda Boschi, «l’ultima parola» sull’ammissibilità di emendamenti all’articolo 2 della riforma spetta al presidente del Senato Pietro Grasso. Dunque lunedì in direzione il premier potrebbe ribadire l’apertura al dialogo e chiedere di fare tutti un passo indietro per trovare un accordo.
Ma il confronto dentro e fuori dal partito potrebbe proseguire ancora per giorni. Partendo da quella che per il governo è una certezza: «Abbiamo numeri ampi. Nessuna preoccupazione per l’esecutivo, lavoriamo per votare nel 2018, non prima».