Cembra, quella polentaper il soldato Georg Baldauf
Novant’anni fa, quassù, la guerra era appena finita. La fame no. Il freddo neppure. Il 17 gennaio 1919 Georg Baldauf, ventidue anni, uno dei cinque figli maschi dell’oste di Sulzberg, nel Vorarlberg, soldato dell’Imperial regio esercito d’Austria-Ungheria, è fuggito pochi giorni prima, con tre commilitoni, dal campo di prigionia italiano nel Veneto. Prima con gli sci, poi a piedi nella neve, Georg ha ripercorso l’altopiano di Lavarone e la Valsugana, rivedendo le montagne dove per quattro anni ha combattuto il nemico traditore, chiamato spregiativamente der Welsche, el taliàn direbbero i filo-asburgici. È un uomo intelligente e tenace, cattolico fervente ma ironico osservatore delle debolezze dell’umanità, Georg Baldauf. Lo si capisce leggendo il suo diario di guerra, pieno di acute osservazioni e anche di poesie, patriottico-nostalgiche e insieme fitte di dettagli di cronaca.
È sopravvissuto a tre ferite (miracolato anche: una pallottola gli ha trapassato il collo), alla fame, al gelo, alle slavine, alle malattie, al fuoco del Welsche e al sadismo del capitano Novak, pazzo furioso che tormentava i suoi sottoposti dall’alba al tramonto. (E che, finirà, proprio grazie a una lettera a casa di Baldauf intercettata dalla censura militare, processato e condannato a morte e suicida in un tribunale militare austriaco).
Arresosi agli italiani a Rovereto, Georg – ex scolaro assai scavezzacollo e futuro falegname - si è sentito tradito dal suo Kaiser e non vede l’ora di tornare a casa a Sulzberg, della guerra e del sangue e del fango e dei ranci schifosi ne ha avuto abbastanza. Fuggiasco attraverso le valli trentine, Baldauf, con suo fratello Ignaz e i due fratelli Hörburger, deve ammettere, con sua sorpresa, che i taliàni non sono poi quei gran bastardi che gli avevano raccontato, dal proclama del Kaiser Franz Joseph dopo la dichiarazione di guerra italiana del maggio 1915 in giù. L’esercito del Regno d’Italia li ha trattati, da prigionieri, con umanità. E adesso, in Trentino, scopre che quei Welsche che “parlano abbastanza bene il tedesco” gli praticano la solidarietà “normale” della gente di montagna. Già il giorno prima, da una finestra, gli avevano passato un grosso pezzo di pane bianco, ed era stata una festa.
E la sera di quel 17 gennaio gli aprono le porte di casa. Lui, il soldato Baldauf, mette sul tavolo l’orologio che gli ha regalato il padrino, ma non ce n'è bisogno: la famiglia di Cembra, in quella casa isolata dove alla fine hanno osato bussare, non lo guarda come un nemico, un crucco, come uno straniero di cui diffidare. L’uomo che scopriranno essere il sindaco del paese gli fa preparare un’enorme polenta, fagioli, un litro di vino. E quando ripartono gli mettono in mano un pezzo di speck e gli riempiono di castagne le tasche del cappotto, prima di indicargli la strada per arrivare a Lavis senza incappare nelle pattuglie italiane.
La storia di Georg Baldauf, uno dei 2.797 Landes- o Kaiserschützen insigniti nella Grande Guerra con la medaglia d’argento di prima classe al valor militare, si combina bene con i ragionamenti di questi giorni intorno alla regione alpina da riscoprire, al di là degli stretti confini del Trentino. Di ripartire dall’Euregio hanno parlato in questi giorni Schelfi e Dellai, del cuore del Tirolo storico per riscoprire oggi la solidarietà con lo straniero hanno parlato i vescovi di Trento, Bolzano, Innsbruck e Salisburgo nella loro lettera sul significato della festa del Sacro Cuore, di quei fuochi sulle montagne che ricordano la battaglia dell’eroe sudtirolese Andreas Hofer contro l’invasore franco-bavarese e che negli anni Sessanta si sono trasformati anche in bombe anti-italiane.
In una fase storica in cui la destra sudtirolese avanza, si torna a parlare di autodeterminazione, e i ragazzi dell’Alto Adige a scuola arrivano con le magliette che rivendicano la loro “tedeschità”, e gli italiani di Bolzano tornano ad agitare lo spauracchio dello scontro etnico e della minoranza perseguitata, rileggere il “Tagebuch des Georg Baldauf”, meritoriamente e amorevolmente pubblicato dalla figlia Ingrid Baur, è un modo per ricordare come, novant’anni fa, ci massacravamo per questi confini, su queste montagne. Tra gente che, al di là della lingua e dei dialetti, ha lo stesso dna di contadini poveri, di fatica e di voglia di darsi una mano se solo si può.
Al di là dello stesso Tirolo storico, è questa terra di montagna che possiamo forse riscoprire, culturalmente prima ancora che politicamente, casa comune, Heimat accogliente per tutti. Tra il 1914 e il 1918 il Vorarlberg (terra di emigrazione trentina, tra l’altro) vide morire in guerra 5.056 dei suoi figli, uno su cinque di quelli che erano partiti, su una popolazione di 140mila abitanti. Già questi numeri esprimono l’orrore che ci siamo lasciati alle spalle, la grande insensatezza - allora considerata sacrosanto e normale dovere patriottico - di un massacrarsi fratricida tra rocce e ghiacciai.
La straordinaria e normalissima avventura del soldato del Kaiser Georg Baldauf da Sulzberg, che vent’anni dopo sarà antinazista e dovrà sfuggire alle Ss, con la sua voglia di vivere, la sua fame, la sua sete e le sue rime (“Niento Vino sind die Worte, die man hört in jedem Orte” - Niento Vino son parole che sentiamo in ogni dove), il suo coraggio e soprattutto la lancinante nostalgia di casa, con la scoperta sorprendente - strada facendo - che anche i trentini italiani potevano essere buoni, è una bella storia piccola che ci dà una lezione di storia grande.
(Il “Tagebuch des Georg Baldauf”, 216 pagine con numerose illustrazioni, anche a colori e cartine, 34 euro, pubblicato per ora solo in tedesco, può essere richiesto direttamente alla figlia e curatrice, la signora Ingrid Baur, Humpisweg 27 - 88353 Kisslegg, Germania, tel. 00497563514 detlefbaur@allatnet.de)