Biomasse, incentivi e speculazione

di Michele Corti

Gli impianti per la produzione di energia da fonti «rinnovabili» sono, come è noto, sostenuti da fortissimi incentivi e da un quadro normativo e istituzionale che tende a favorirne la realizzazione arrivando a classificarli «opere di pubblica utilità, urgenti e indifferibili» (sic). Sono peraltro benedetti, almeno in linea di principio e laddove l’opposizione popolare non costringe a «riposizionamenti», dall’ambientalismo istituzionalizzato, dai «patti dei sindaci», da una mistica dell’«energia pulita» che le lobby si preoccupano di alimentare.

Tutto ciò dovrebbe – già di per sé - indurre qualsiasi spirito critico ad interrogarsi sui motivi veri tanto fervore, di tanto zelo ambientalista da parte di soggetti che, in nome della «libera iniziativa privata», perseguono palesemente finalità di profitto speculativo (ma sarebbe meglio dire di rendita).  La proliferazione di impianti a biomassa non segue logiche di «risparmio di energia fossile», di autosufficienza energetica, di miglioramento ambientale, di disponibilità di biomasse a km zero, ma è guidata da tre driver: la massimizzazione dell’incentivo, la disponibilità e il grado di sostegno politico locale, la presenza di una capacità di opposizione locale da parte delle comunità «esposte» (sia di tipo «popolare» che in termini di accreditamento politico e risorse di liquidità dei soggetti economici che subiscono gli impatti). La localizzazione, la tipologia, la dimensione delle centrali rispondono a questi criteri politico-sociali anche se sulla carta dovrebbero tenerne in conto ben altri. La strategia dei gruppi impegnati nel proporre  nuovi impianti (ossia presentare il progetto e seguire l’iter amministrativo), realizzare ed esercire le centrali consiste nel presentare diversi progetti in vari comuni, provincie o parti d’Italia sapendo che solo una parte riusciranno a «passare». Essi danno quindi per scontato che il fattore «politico» è quello determinante.

Se valessero considerazioni di carattere ambientale il ricorso all’energia da biomasse dovrebbe essere limitato alla produzione di sola energia termica dove è attiva una vera filiera legno e dove la qualità dell’aria è buona e non subisce un peggioramento.  Le centrali a combustione di cippato o altre biomasse solide (come i CSS) producono energia elettrica con un’efficienza bassissima (20%) ponendo il problema dello smaltimento dell’eccesso di energia termica, che rappresenta un problema anche in termini di efficiente funzionamento del circuito di raffreddamento dell’impianto. Ma in estate? Dal momento che i fabbisogni di «acqua sanitaria» non sono sufficienti ad utilizzare il calore prodotto si inventano «piscine riscaldate» ed altri usi improbabili e inutili che equivalgono in ogni caso a disperdere calore nell’atmosfera.
Sia che il calore prodotto venga utilizzato o che venga disperso la combustione della legna (o di altre «biomasse» compresi i rifiuti) la combustione di biomasse solide provoca l’immissione nell’aria - con i fumi esausti - di inquinanti che, per qualità e quantità,  peggiora la situazione rispetto alla combustione del metano (e a volte anche del gasolio e persino del carbone).
Il peggioramento si registra in modo particolare  in estate quando gli impianti di riscaldamento sono spenti ma le centrali continuano a marciare per produrre l’energia elettrica che giustifica in termini economici il business.

Il fatto stesso che si continui a premiare la produzione di energia elettrica da «fonti rinnovabili» (nonostante l’obiettivo per il 2020 sia già stato raggiunto) e non si spostino gli incentivi sulla produzione di calore o sul risparmio energetico (solo modestamente incentivati) deve indurci a riflettere sul fatto che questi incentivi sono mantenuti non per motivi ambientali, come si vorrebbe dare da bere ai cittadini ignari, ma per consentire occasioni di speculazione per gruppi economici forti e capaci di influenzare la classe politica. L’energia elettrica da «rinnovabili» è messa in rete con priorità rispetto a quella prodotta da fonti fossili (anche se esse - come nel caso del gas naturale - sono molto meno inquinanti, anche se ciò determini, in un contesto di calo strutturale dei consumi di energia elettrica, cassa integrazione, sottoutilizzazione di impianti e quindi ulteriore aumento dei costi dell’energia). Se le grosse centrali (oltre 5MW elettrici = 25MW termici) devono accedere agli incentivi attraverso un sistema di aste contingentate, per quelle di media e piccola taglia non è limitata. Più energia elettrica si produce e più incentivi si incassano. Basta ottenere l’autorizzazione e allacciarsi alla rete.  Così si stimola un business che attira il capitale finanziario (mentre sugli incentivi alla produzione di calore e al risparmio sono in gioco l’economia delle famiglie e delle piccole imprese, soggetti – interessi dispersi - che notoriamente non sono in grado di organizzarsi in lobby).
Stante questa spinta speculativa non deve meravigliare che siano proposte (e in qualche caso realizzate) centrali a combustione di biomasse persino nelle aree metropolitane dell’inquinatissima pianura padana (alle porte di Torino) dove si superano sistematicamente i limiti massimi di legge per il PM10 causa di infrazione alla direttiva comunitaria 2004/107/CE (ora sostituita dalla 2008/50/CE che dal 2015 prevede un limite massimo per il PM2,5).  

Quelle della pianura padana sono centrali molto lontane dai boschi ma vicinissime a fonti «significative» di emissioni  inquinamenti: inceneritori, acciaierie, traffico veicolare. Come è possibile? Per favorire queste «energie pulite» si sono esentate le centrali «a energie rinnovabili» dalla Valutazione di impatto ambientale (VIA) e pertanto gli effetti cumulativi non sono tenuti in conto.

La strategia della disseminazione di tantissime centrali medie e piccole che sfuggono a una seria valutazione degli impatti, che seguono procedure autorizzative molto semplificate determina:
1) un elevato rapporto complessivo all’inquinamento a causa delle elevate emissioni per unità di energia prodotta (le centrali piccole e medie sono dotate di sistemi di abbattimento dei fumi rudimentali);
2) conseguenze sconcertanti in termini di localizzazioni a ridosso di case di abitazione, scuole, fiumi, ospedali, aree protette ecc.
È bene sottolineare come anche in Trentino, nonostante la qualità dell’aria sia mediamente molto migliore di quella della pianura padana, localmente possono sussistere condizioni di criticità (conformazione orografica, arterie di comunicazione).

La localizzazione delle centrali è affidata quindi a un «gioco» di fattori che nulla hanno a che fare con la tutela della salute e con logiche ambientali. Questo è bene tenerlo a mente.
Perché in Trentino si sta ponendo uno stop alle centrali a cippato? Perché le società che eserciscono gli impianti di teleriscaldamento sono scese sul piede di guerra diffidando la PaT dal concedere nuove autorizzazioni che porterebbero ad una concorrenza feroce per il cippato e gli scarti di segheria facendo saltare i piani economici di gestione delle centrali esistenti.

Perché nelle Marche sono state sequestrate delle centrali a biogas per «superamento dei limiti di emissione nell’aria di composti organici totali» e nulla accade in altre regioni dove sono in esercizio identiche centrali? Perché nelle Marche la procura di Ancona ha scoperchiato un giro di corruzione (autorizzazioni facili da parte di funzionari regionali) ed è «sul pezzo».
Perché la provincia di Vercelli ha chiuso per lo stesso motivo una centrale a biogas (confortata da sentenze del Tar e del Consiglio di Stato)? Perché a Vercelli pesano gli interessi della filiera riso e il biogas fa concorrenza al riso sottraendo superfici a favore del silomais da biogas.
Perché il Consorzio del Barolo e Barbaresco è riuscito a bloccare le centrali a biomasse legnose nel suo territorio mentre grosse cooperative vitivinicole fanno a gara a realizzare impianti a biomassa? Perché il Barolo e il Barbaresco non possono permettersi di macchiare l’immagine con il rinvenimento di sia pur piccole tracce di contaminanti nel vino esportato negli Usa.

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Perché in alcuni comuni toscani (Arezzo, Siena, Grosseto) con presenza di agricoltura di pregio le centrali a biomassa sono state stoppate? Perché i comitati (e gli imprenditori che li sostenevano) hanno sborsato decine di migliaia di euro per commissionare a staff di professionisti contro-relazioni che hanno rivoltato come un calzino i progetti dei proponenti costringendoli a ritirarli o determinandone la bocciatura in conferenza dei servizi.

Biomasse di classe? In un certo senso sì. Dove c’è solo il disagio per la popolazione (puzze, rumori, traffico pesante, più l’inquinamento che non si vede), dove c’è solo in ballo la salute di comunità locali con  poco potere e scarso reddito, scarse risorse relazionali, scarsa cultura (necessaria per informarsi, documentarsi, formulare osservazioni, comprendere le procedure) le biomasse passano. In più c’è la variabile dell’atteggiamento della politica locale. Dove le amministrazioni «spingono» per i progetti l’informazione alla cittadinanza arriva a cose fatte e nella forma di «informazione tecnica» somministrata dai progettisti e dagli esperti di parte. A dispetto della partecipazione democratica, a dispetto di una società «buonista» improntata ai paradigmi dello sviluppo sostenibile, della coesione sociale, della solidarietà. Maschere di ipocrisia che nascondono ben altre realtà. A chi tocca tocca. A qualcuno, sulla base della semplice «ragione del più forte» l’arrosto dei profitti (derivati dalle tasche dei tapini consumatori di energia). A chi non ha la possibilità di difendersi... il fumo.

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