Mario Pasi e l’infermiera
Mario Pasi e l’infermiera
Il martire della Resistenza Mario Pasi e Carmela Moser in Grisenti, nel 1943 infermiera nel reparto radiologia al Santa Chiara che all’epoca s’apriva in via Santa Croce. All’età di 90 anni ricorda quel medico nei giorni più bui e tragici del nostro Trentino. Una pagina della Resistenza raccontata con lucidità da quella donna nata a Telve in Valsugana. Aveva solo 18 anni; come tutte le infermiere che erano nubili, alloggiava in un’ala dell’ospedale, quindi c’era nel giorno del 2 settembre, quello del bombardamento della Portèla, nella notte dell’8 settembre, e nella giornata del bombardamento del maggio del 1944, quello che distrusse il rione di San Martino.
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Il 2 settembre del ‘43 si era trovata nella bolgia di un ospedale situato a poche centinaia di metri dal rione sconvolto dalle bombe. Ci voleva molto coraggio ad affrontare una situazione così tremenda. «C’era un forte odore di sangue e terra, tutti i feriti erano in condizioni gravissime, i medici Alessio Pezcoller, Costa e Cristofolini avevano chiamato a raccolta tutto il personale. C’erano tutte le suore, quelle di Maria Bambina che lavoravano, pregavano, ci facevano coraggio. C’era il fratello di Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari, e il dottor Mario Pasi che ci faceva coraggio, ci sorrideva, era instancabile e non si staccava dal tavolo operatorio. I feriti continuavano ad arrivare. Non sentivo né stanchezza né paura. Cercavo di sorridere. Anche adesso, dopo 70 anni, se chiudo gli occhi vedo cosa era successo». Coraggio, abnegazione, dedizione che non sono mai stati premiati.
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Ecco la notte dell’8 settembre sempre dal racconto di Carmela Moser sposata Grisenti: «Alle due di notte si sentì sparare. Poi arrivarono i primi feriti. Erano soldati italiani, erano reclute, erano spaventati. I letti erano occupati dai feriti del bombardamento di 6 giorni prima e così dove c’era un po’ di spazio vennero messi su barelle e i meno gravi, stesi su coperte. Non si capiva cosa stesse succedendo ma tutti avevano paura. Il dr. Mario Pasi che era molto simpatico, alla mano, ed era anche un bell’uomo, si dava da fare. Era proprio alla mano, cordiale con tutti, si sapeva che piaceva alle signorine bene della città. Ormai sono passati 70 anni, ma me lo ricordo bene: quella notte non disse una parola. Quella notte non sorrise mai. Dopo qualche giorno non lo abbiamo più visto nell’ospedale. Poi qualcuno ha detto che era in montagna, con i partigiani a combattere i tedeschi. I partigiani? Non sapevamo niente. Solo una suora ci disse di pregare per loro. Ricordo che la mattina del giorno 9 eravamo alle finestre che guardano su via Santa Croce e abbiamo visto una fila di soldati italiani, senza armi. Andavano verso piazza Fiera guardati da pochi soldati tedeschi. Non sapevamo dove li portavano. Poi abbiamo saputo che li avevano portati in Germania».
La speranza nella libertà arrivò nel pomeriggio del 26 luglio con la notizia della caduta del fascismo. Toni Maestri con un imbianchino – il giornalista Gian Pacher ricordava che si chiamava Tomasi – si diedero da fare per cambiare il nome di una strada e di una piazza della città. Il padre di quello che sarà nel dopoguerra il Ragno delle Dolomiti, munito di una lunga scala, pennello e vernice, aveva sostituito la targa di Piazza del Littorio con Piazza Matteotti e quella di via Italo Balbo con via don Minzoni. La decisione di cambiare i nomi che sapevano di fascismo era stata presa da Egidio Bacchi. Con lui si erano raccolti uomini destinati a segnare la storia dell’antifascismo trentino: il conte Giannantonio Manci, Gigino Battisti, figlio di Cesare e di Ernesta Bittanti, Guido Pincheri antifascista militante, il repubblicano Beppino Disertori, il grande neurologo che studiò gli effetti della «spagnola», l’ingegnere Guido de Unterrichter che divenne rappresentante della Democrazia Cristiana nel Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale, i socialisti Emilio e Giovanni Parolari con Lodovico Andreatta proprietario di una piccola fabbrica di biciclette. Poi c’erano gli uomini del Pci: Giuseppe Ottolini, che fu il primo prefetto di Trento per nomina del Cln, Mario Pasi e Gino Lubich fratello della fondatrice del Movimento dei Focolari. Quel gruppo di antifascisti che proveniva dal Partito d’Azione fece subito una richiesta all’autorità militare: alleggerire le rigide disposizioni sul coprifuoco impartite da Badoglio e rafforzate dal generale Gloria. Poi si incontrarono nell’abitazione di Ernesta Bittanti, la vedova di Cesare Battisti. Lei decise di inviare a Badoglio un memoriale nel quale si chiedeva di allontanare il fascistissimo prefetto Italo Foschi, soprattutto di non deludere il popolo italiano. Difficilmente il generale avrà letto quella missiva.
Tempi sempre molto difficili per gli antifascisti. Il Governo Badoglio non aveva abrogato la legge che impediva la costituzione di partiti politici e così nei 45 giorni del Governo Badoglio si impiegarono tutti i sinonimi per non incorrere in sanzioni. Si usavano i termini di «correnti», di «commissioni di studi» e «comitati» per non usare quello di «partito».
Nella tipografia di Bacchi venne stampato un manifesto a firma «Giustizia e Libertà» nel quale si accusava la monarchia di aver favorito il fascismo. Nella premessa del documento si parlava di pace, della necessità di una costituente e della repubblica al posto della monarchia come forma legittima di governo. Ma proprio il riferimento alla repubblica costò l’arresto di Bacchi. Pochi giorni di detenzione poi il ritorno alla libertà e la fuga per Bacchi in Valfloriana.
È nei giorni di quell’agosto pieno di paure ma anche di speranze, che viene elaborato il Manifesto del Movimento Socialista Trentino scritto da Bacchi con la collaborazione di Giannantonio Manci e Giuseppe Ferrandi, avvocato, socialista, anche lui come Bacchi arrivato a Trento da Mantova. Una pagina fondamentale, anche se purtroppo dimenticata, della sinistra trentina; un appello, un inno alla libertà dopo la dittatura. «Nel cerchio di fuoco della sua guerra che illumina di sinistri bagliori i confini del mondo, il fascismo è caduto in viltà. Destino in tutti i tempi di ogni tirannide. I Savoia, costretti e piegati dalla logica inesorabile dei fatti e dall’onda montante dell’indignazione del popolo, ne hanno suggellata la fine con un gesto che invano fu chiesto loro in quel torbido 28 ottobre 1922, che segna nella vita del nostro paese una data funesta ed un lutto di cui resterà tra gli uomini memoria, finché viva in essi il senso dell’umana dignità». Poi l’appello ai lavoratori con il richiamo alla pace dettato dalla libera volontà dei popoli che «vent’anni di oscura persecuzione e di lotte hanno unito in un vincolo di solidarietà indissolubile lavoratori del braccio e del pensiero». Quindi il programma «che invoca per la sua attuazione la repubblica, unica forma logica e legittima di governo». Fra i cinque punti, la libertà di religione e uguaglianza di razza e il decentramento amministrativo.
Non era facile in quel tempo di guerra e di monarchia indicare la repubblica come unica forma di governo e neppure parlare di uguaglianza di razze nel cuore di una Europa ariana che deportava e massacrava gli ebrei. Poi l’appello: «Lavoratori dei campi, delle officine, delle professioni, degli atenei raccoglietevi sereni e fidenti intorno alle nostre bandiere». Era l’agosto del Quarantatre, pochi giorni prima dell’8 settembre, del ritorno nel buio.
Da ricordare – lo ha egregiamente scritto la professoressa Maria Garbari – che «nel Trentino l’antifascismo rivestì caratteri particolari. L’assenza di un vero e proprio proletariato industriale e agricolo, ostacolava la penetrazione su larga scala del socialismo e del comunismo. Era invece presente la forza dei popolari attraverso le organizzazioni cattoliche che seppero creare una forma di opposizione silenziosa capace di fare il vuoto attorno al fascismo. Tutto ciò non tolse vigore al gruppo di socialisti, repubblicani e comunisti che trovarono, nella tipografia diretta da Bacchi, un punto di incontro per la stampa clandestina e la sua diffusione. Tale gruppo agì con iniziative anche culturali. Presso la tipografia venne stampata la rivista della Legione Trentina Trentino, ispirata al patriottismo battistiano promuovendo fra l’altro l’arte figurativa. Il periodico ebbe come collaboratori un gruppo di antifascisti quali Oreste Ferrari, Ernesta Bittanti, Bice Rizzi, Beppino Disertori, Ezio Mosna, Raffaele Giolli e lo stesso Bacchi».
Apparvero i manifesti germanici ad elencare le infrazioni da punire con la fucilazione. È quel «viene fucilato» a far capire ai trentini e, a tutti gli italiani, che sono in balia dei tedeschi; sono quei soldati armati nella vie della città a dimostrare che sull’Italia si è abbattuta una nuova e più feroce dittatura; è l’ordine perentorio ai militari del regio Esercito «scappati o nascosti» di consegnarsi ai tedeschi, a far comprendere che l’ Esercito non c’è più. C’è anche il comunicato della Regia Prefettura di Trento a scandire il nuovo corso. Si dispone «d’intesa col Comando Militare Tedesco della città», che tutti i servizi civili devono riprendere immediatamente le loro funzioni e che tutti gli impiegati civili si devono presentare immediatamente agli uffici per riassumere il servizio. Devono riaprire gli stabilimenti, gli opifici, i negozi, i servizi pubblici di trasporto. Deve tornare la normalità. Subito. Ecco un altro proclama. «La Regia Prefettura ordina che tutto il personale della Società Telefonica Telve deve presentarsi domani alla propria direzione per riattivare il servizio telefonico che, sotto il controllo del Comando Germanico, sarà ripristinato». Agli abbonati, che sono pochi, l’ordine di non abusare del telefono, di usarlo solo per ragioni di provata necessità, di essere rapidi, brevi, concisi e tralasciare convenevoli e frivolezze. Tutti i prodotti alimentari devono essere conferiti agli ammassi, devono essere consegnate le armi e gli oggetti militari e ogni giorno alle ore 10 sarà eseguito il segnale di prova delle sirene d’allarme. Trento, che era già stata, dal maggio del 1915 al 3 novembre del 1918 Città Fortezza piombava, come tutte le altre città dell’ Europa in fiamme, in stato di guerra.
Scrive il giornalista Pugliese su «Il Brennero» del 10 settembre e con il titolo «Epilogo» un articolo coraggioso sottolineato anche dal giornalista Gino Callin quando nel 1973 ricostruì per L’Adige le giornate del 1943: «Credevamo che l’ultimo colpo di fucile echeggiante per i monti calabresi segnasse la fine, sia pur dolorosa, della nostra guerra; credevamo che giorni di relativa tranquillità dessero finalmente tregua ai nostri corpi ed ai nostri cuori. Ma la speranza è stata di brevissima durata. Altro sangue è stato versato, sangue nostro, di italiani aventi il diritto di credere che, oltretutto, fossero state prese misure di garanzia per la salvaguardia degli interessi generali e particolari della Nazione». Con i tedeschi in casa, li accusava di essere corresponsabili del sangue nostro versato. Dopo anni di censura, di asservimento alla dittatura che opprimeva il pensiero e il linguaggio, in un momento così grave, la frase è eroica. Continua l’articolo: «La speranza è andata delusa ed è successo quello che tutti sanno. L’Italia si prepara ad essere, per breve o per lunga durata, un campo di battaglia. Altre rovine, altre stragi, altri lutti tanto più dolorosi quanto più nutrita era la speranza che l’armistizio fosse stipulato in modo da dare un’effettiva tregua. Né sapremo fino a quando dovremo continuare a bere il calice amaro di questa nostra avventura». Ma poi arriva l’invito alla resistenza. Precede di poco quella con la «R» maiuscola, è un segnale fortissimo sbattuto in faccia a quanti, armi in pugno, occupano la città. «Se noi sapremo tenere accesa la fiaccola di fede e di speranza nonostante tutte le avversità, se noi sapremo e vorremo contribuire a questa morale resistenza con la nostra disciplina, con la nostra pertinacia e con la nostra dignità, allora un giorno vicino o lontano non importa, potremo riprendere la nostra strada che è di lavoro e di umanità, gli unici effettivi valori che nessuna forza bruta potrà mai distruggere».
La Resistenza appunto. Bice Rizzi, nata a Rabbi nel 1894, arrestata il 4 luglio 1915 con l’accusa di propaganda anti austriaca, condannata a morte per impiccagione il 27 gennaio del 1916, pena commutata in 10 anni di prigione scontati fino all’8 novembre del 1918 nella prigione di Wiener Neudorf, l’ultima donna del Risorgimento, la custode fedele di tante memorie, la direttrice del Museo Trentino del Risorgimento voluto dalla Legione Trentina (dal nome del raggruppamento dei volontari trentini entrati nel Regio Esercito nella primavera del 1915, nda), racconterà nel 1973 in una pagina memorabilmente scarna su quella giornata tragica quanto eroica, il momento della nascita della Resistenza.
Racconterà la lotta impari dei militari italiani che proprio a Trento aprirono la schiera gloriosa dei Caduti nella lotta per la liberazione quando gli italiani fecero una scelta dicendo no ai nazisti, separandosi da quanti si schiereranno dalla loro parte. Pagine dimenticate; pagine di storia del nostro Trentino raccontate da una testimone di quelle ore. «Quando nella notte fra l’8 e il 9 settembre tuonò a Trento il primo colpo di cannone, la popolazione trentina e i soldati di stanza nella nostra città, compresero che la tensione politico-militare toccava il suo punto cruciale. Sarebbe stata la liberazione o la catastrofe? La speranza ultima a morire, s’aggrappava, in quella tremenda notte, disperatamente alla soluzione liberatrice anche se i segni premonitori quali l’afflusso di truppe e di armi germaniche non lasciavano adito a pronostici molto rassicuranti. E l’alba del 9 sorgeva a deludere ogni speranza. Per le strade, ancora deserte, ma con segni di scoppi e di mitraglia, ombre di uomini in divisa scomparivano nei pochi portoni aperti e qua e là ai crocicchi, sentinelle naziste stazionavano in pieno assetto di combattimento».
Ricordano altri testimoni che quei soldati erano molto giovani, indossavano tute mimetiche di nuovo disegno attraversate dai nastri delle mitragliatrici leggere, i lunghi manici delle bombe a mano infilati nei cinturoni e nei bordi degli stivali. Continua il racconto di Bice Rizzi: «Col sorgere del sole lo spettacolo più desolante: colonne di nostri soldati, disarmati, sommariamente vestiti, venivano condotti dai tedeschi verso il nord della città, per essere concentrati nella prima tappa all’accampamento di Gardolo», dove, nei giorni successivi al 25 luglio, con il compito di dover difendere da attacchi dal cielo l’aeroporto, la fabbrica strategica della Sloi, il vicino ponte ferroviario dei Vodi, si erano installati reparti della contraerea mentre a Lavis si erano acquartierate compagnie di carri armati e di granatieri corazzati, anche quelli tolti dal fronte russo, pronti per essere avviati in Calabria. «Si seppe che erano state attaccate le tre caserme della città e che la resistenza opposta, con valore, specie nella caserma intitolata a Cesare Battisti, era stata vinta dalle soverchianti forze nemiche. Molti i morti e i feriti – 48 i primi, oltre 200 i secondi – vennero avviati per gran parte all’ospedale civico di Santa Chiara pieno di feriti del bombardamento di sei giorni prima. L’attacco venne condotto con energia e con rabbia contro gli italiani traditori. I soldati della Wehrmacht si aspettavano una resistenza organizzata, così quando l’autoblindo in testa alla colonna corazzata germanica si trovò sull’ingresso della caserma Battisti, il mitragliere aprì subito il fuoco uccidendo i soldati del corpo di guardia».
La testimonianza del dr. Leopoldo Pergher che nella Grande Guerra aveva diretto gli ospedali militari della Fortezza di Trento prodigandosi per i prigionieri dell’Esercito Italiano feriti o malati, racconta quelle ore di angoscia e di coraggio. «Verso la mezzanotte i tedeschi circondarono le caserme e tutti i magazzini e uffici militari con i carri armati, bombe a mano e fuoco di fucileria. Ci furono morti e moltissimi feriti che il giorno successivo furono smistati nell’ospedale militare e al Santa Chiara. Il dr. Mario Pasi assistente della divisione chirurgica, fu l’animatore di una bella beffa giocata ai tedeschi dai primari, assistenti e da tutto il personale dell’ospedale che colla più assoluta e tacita connivenza procurarono ai militari abiti civili e li fecero fuggire o li nascosero fino a guarigione in qualche casa amica, evitando così l’internamento in Germania. A giustificazione del fatto, le cartelle cliniche portarono le annotazioni di irreperibile o mancante. Di tutto ciò era stato avvisato il direttore, il prof. Alestra, primario medico dell’ospedale.
Ancora dal racconto di Bice Rizzi: L’elenco dei feriti compilato dal dr. Pergher e consegnato al Museo del Risorgimento ci fa conoscere i dati anagrafici e clinici di 113 soldati ricoverati provenienti da ogni parte d’Italia, recante in margine la dicitura di irreperibile o risultato mancante. La fuga era stata progettata da Mario Pasi da Ravenna, ma già da vari anni a Trento e dal dr. Alestra già medico di famiglia del prefetto Italo Foschi che si preparava a rientrare a Trento dopo essere stato defenestrato all’indomani del 25 luglio, per essere nuovamente deposto con la costituzione dell’Alpenvorland assegnata al Gauleiter del Tirolo e del Vorarlberg Hofer. Il dr. Pasi che già militava nelle file del partito comunista, fortemente sospettato, dovette lasciare Trento. Nel bellunese organizzò le formazioni partigiane e, tradito, venne assassinato il 10 marzo del 1945. Se – conclude Bice Rizzi – il capitano Vincenzo Battagliotti, 25 graduati e 87 soldati sopravvissero a quelle giornate di tragedia, conserveranno certo nel cuore il nome di Mario Pasi e di quanti li aiutarono, con il rischio della vita, ad evitare la deportazione in quei Lager da dove migliaia di militari non sono più tornati o tornarono recando nel corpo i segni indelebili della dura prigionia».