Il nuovo asse Washington-Mosca
Il nuovo asse Trump-Putin
Con la nomina nei giorni scorsi del nuovo segretario di stato americano, si cominciano a delineare i tratti della presidenza Donald Trump specie sul delicato e importantissimo scenario della politica estera, cioè il rapporto con il resto del mondo. Il profilo di Rex Tillerson, il prescelto per guidare gli Esteri della maggiore potenza mondiale, la dice lunga sull'idea che Trump ha del mondo, dell'Europa e del ruolo che per settant'anni gli Stati Uniti hanno svolto nel garantire l'ordine internazionale costruito dopo il 1945, e sopravvissuto anche al crollo del muro di Berlino.
Tillerson è un business man, presidente e amministratore delegato di ExxonMobil (la Esso, per capirci), colosso del petrolio, e nella vita ha sempre e solo fatto l'uomo d'affari, peraltro di successo. Grande amico di Vladimir Putin, con cui ha firmato accordi di sfruttamento del petrolio nei giacimenti dell'Artico, conosce tutti i leader e i dittatori del mondo per aver fatto affari con loro.
In questo Tillerson è il capo ideale degli Esteri per un presidente qual è Trump che interpreta la politica come business, come affari da trattare se sono convenienti al proprio tornaconto, indipendentemente dal mantenimento di un ordine internazionale, dal rispetto dei diritti umani, dalla difesa degli alleati o semplicemente dei valori liberali e democratici su cui, dopo la Seconda guerra mondiale, si è costruita anche l'alleanza Stati Uniti-Europa. Una politica estera, quindi, «transactional» come si dice ormai dalle parti della Trump Tower di New York, ossia contrattuale. Non più fondata su istituzioni, principi, valori, alleanze stabili, ma sull'accordo vantaggioso del momento, il cosiddetto «deal», esplicitato con chiarezza dallo stesso Trump nella sua celebre autobiografia «The Art of the Deal», l'arte di fare affari.
Tale nuova visione del mondo chiude forse definitivamente un sistema internazionale in cui gli Stati Uniti svolgevano un ruolo di stabilizzazione e di equilibrio tra le potenze militari e politiche a livello globale ma anche geo-territoriale locale, ricoprendo un ruolo di «gendarme», pur abusando a volte della propria primazia militare o scivolando in talune fase storiche in un discutibile unilateralismo, fonte di tragiche e devastanti conseguenze come l'invasione dell'Iraq. In quel sistema il Vecchio continente ricopriva un ruolo fondamentale quale alleato storico e strutturale di Washington, da cui ricavava le garanzie di difesa che hanno permesso all'Europa di vivere per settant'anni in condizioni di pace e di libertà, oltre che di democrazia.
Ora, secondo quanto emerge dalle dichiarazioni del neopresidente Trump e dalle prime scelte effettuate, tutto questo non esiste più. Ciò che dovrà muovere ogni decisione e ogni strategia sarà «America first», ossia il vantaggio immediato che ne può trarre l'America, specie in termini economici e commerciali. Quindi nazionalismo economico, superiorità militare per trattare da posizioni di forza con amici e avversari, spregiudicatezza di ogni accordo se c'è convenienza e un qualche utile in cambio. Basta summit di nazioni più o meno unite, fine di accordi globali sul clima o sulla lotta alla povertà, addio a concezioni multilaterali della politica internazionale o alla visione wilsoniana degli Usa «baluardo della democrazia», ideali che hanno guidato generazioni di inquilini della Casa Bianca, compreso George W. Bush nella versione rivisitata della «democrazia da esportare».
Il potere - secondo Donald Trump - non serve per cambiare il mondo o renderlo migliore, ma in maniera esclusivamente mercantilista per fare affari, dove anche gli alleati, o i diritti umani, o il destino di questo o quel territorio, di questo o quel popolo, sono semplicemente beni negoziabili che l'America può utilizzare quale merce di scambio in cambio di accordi ritenuti per sé vantaggiosi. La scelta di Rex Tillerson quale segretario di stato è un segnale ben preciso inviato a Mosca e all'Europa. Donald Trump, che ammira molto Vladimir Putin come tutti i regimi e i leader autoritari che esercitano su di lui un fascino particolare, vuole chiudere la partita con la Russia, riprendere al più presto a stipulare accordi economici, energetici e commerciali mettendo le sanzioni nel cassetto, per tornare a fare affari con Putin. Del destino dell'Ucraina, dell'annessione della Crimea, della guerra in Siria o dell'assedio di Aleppo, come pure della sorte futura dei paesi baltici non interessa nulla. «Affari loro», sostiene Trump.
A breve termine ciò comporterà sicuramente vantaggi agli Stati Uniti, a cominciare dalla smobilitazione militare in Europa e probabilmente anche in Medio Oriente, cedendo a Mosca l'influenza su tutto l'Est, anche quello mediorientale. Qualche beneficio commerciale lo porterà pure all'Italia, che potrà riprendere l'export verso Mosca. Bisognerà vedere cosa succederà a medio e lungo termine con una Russia caricata di nazionalismo esasperato, lanciata verso un pericoloso revisionismo delle frontiere, animata da un viscerale revanscismo dopo la fine del comunismo e la dissoluzione dell'impero sovietico, vogliosa quindi di prendersi la sua rivincita verso l'Occidente europeo. Una Russia che, dopo quasi un secolo, si sente libera nei suoi appetiti dal contenimento americano.
E i primi effetti si vedono sul martirio di Aleppo, con Putin ormai padrone dell'area che spalleggia il dittatore Bashar Al Assad nella strage degli innocenti. L'altro messaggio chiarissimo che la nomina di Tillerson esprime è rivolto all'Europa, già paralizzata da una crisi identitaria e istituzionale pesantissima, fortemente indebolita dal punto di vista economico e alle prese con una depressione sociale che alimenta la santabarbara della rabbia populista e antisistema, minacciandone la sopravvivenza stessa. Nei confronti dell'Europa Donald Trump nutre solo disprezzo, come ha chiaramente manifestato incontrando per primo (e finora unico protagonista politico europeo) Nigel Farrage, il bardo inglese della distruzione del progetto di Europa unita, che vorrebbe ambasciatore britannico a Washington.
Subito dopo ha chiamato e incoraggiato Viktor Orban, il premier ungherese che si oppone all'Unione europea e costruisce muri alle frontiere contro gli immigrati e gli stranieri. Ha poi detto e ripetuto che in caso di aggressione dell'Europa da parte di Mosca o di chiunque altro gli europei dovranno arrangiarsi. La Ue dovrà assumersi la responsabilità e i costi della propria difesa, decretando così la fine della Nato, l'alleanza atlantica. Per Trump gli europei sono solo degli scrocconi che hanno vissuto alle spalle degli Stati Uniti, sfruttando la loro forza militare e difensiva per destinare invece risorse al welfare e al proprio benessere economico e sociale. L'arrivo di Trump alla Casa Bianca segna per l'Europa uno spartiacque epocale, che rischia di condannarla all'irrilevanza politica e quindi al completo declino economico. Oltreché, per la prima volta da settant'anni a questa parte, metterla di fronte a rischi concreti per la sopravvivenza della pace.
Se l'Europa non si risveglia dallo shock e ritrova la forza di stare insieme, e insieme dare risposta al nuovo contesto mondiale che si è determinato, la sorte è segnata. Purtroppo la cecità nazionalista e le paure xenofobe, unite all'irresponsabilità delle élite nel compiere scelte unitarie e di prospettiva duratura, insieme al cupio dissolvi di cui sembra preda l'opinione pubblica europea ammorbata dalle sirene demagogiche e sfasciste, non depongono positivamente. Solo il ritorno della ragione, di uomini liberi e forti, e di una ambiziosa idea di Europa, la stessa che permise di risorgere dalle macerie della guerra, potrà scongiurare tale destino. Ci riusciremo?p.giovanetti@ladige.it
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