La repubblica giudiziaria

La repubblica giudiziaria

di Pierangelo Giovanetti

Questa mattina a Roma il Presidente del Senato in carica Pietro Grasso verrà incoronato leader politico della sinistra più a sinistra, il raggruppamento che fa capo a D'Alema e Fratoianni. Senza soluzione di continuità Grasso passa (anzi resta) da seconda carica istituzionale dello Stato, presidente (imparziale?) di palazzo Madama, a contemporaneamente leader politico, che attacca pubblicamente gli altri partiti presenti in Senato, pur mantenendo la sua carica di «super partes».

La stessa cosa aveva fatto transitando direttamente da magistrato a candidato Pd, da Procuratore che indagava i politici a militante di partito. Quasi medesimo comportamento è seguito dalla Boldrini, Presidente della Camera, pur non diventando (per ora) capo partito ma mantenendo il ruolo di terza carica dello Stato insieme alla militanza politica, garante istituzionale e nello stesso tempo attivista di parte. Per tutta la Prima Repubblica non era mai successo che un Presidente della Camera o del Senato facesse anche politica attiva.

Tutti, dai Dc ai socialisti ai comunisti, avevano tanto e tale rispetto delle istituzioni e del loro ruolo, da astenersi dalla attività partitica, o addirittura dimettersi come fece Saragat quando fondò il Psdi, lasciando la presidenza della Costituente. Anche questo è un segno dei tempi e della degenerazione ai vertici delle istituzioni, sempre più prive di senso dello Stato. Per Pietro Grasso, poi, si aggiunge l'altro malcostume italico, vero problema cruciale di garanzia ed equilibrio di poteri, del passaggio disinvolto da magistrato che può disporre arresti e limitazioni della libertà personale a militante politico. In molti casi poi, con ritorno alla toga e alle inchieste, dopo aver per anni attaccato gli altri politici.

Da Montesquieu in avanti, il sano funzionamento delle istituzioni si basa sulla divisione dei poteri (legislativo esecutivo e giudiziario) e la loro autonomia reciproca. Su questo poggia la democrazia liberale, ed è garanzia di corretto e rispettoso funzionamento delle istituzioni. Tale equilibrio in Italia è saltato da tempo, per lo meno dagli anni di Tangentopoli, e non ha più trovato un rapporto sano e corretto, causando corti circuiti della politica e discredito dell'autorevolezza della magistratura e della sua imparzialità.

Così si assiste come fosse una cosa normale e salutare per le istituzioni al passaggio diretto di Michele Emiliano, Procuratore di Bari già titolare di inchieste sulla politica locale, a sindaco di Bari e militante Pd, per passare poi a Presidente della Regione Puglia di una giunta di centrosinistra, mantenendo in aspettativa il suo incarico nella magistratura. Pronto quindi a tornare a fare di nuovo il magistrato (peraltro come sta facendo già oggi da presidente della Puglia ricorrerendo ai tribunali su tutti gli atti politici del governo, dalla scuola ai vaccini al Tap, comunque con scarso successo).

Così sarà per molti dei magistrati attualmente in aspettativa e parlamentari alla Camera e al Senato, che a fine legislatura torneranno a fare inchieste sulla politica o a giudicare nei processi. Il tutto avendo perfino maturato scatti di anzianità e avanzamenti di carriera come magistrati mentre facevano i militanti politici. Magari per poi lamentarsi, come fece Antonio Ingroia, dopo l'insuccesso elettorale quale capopolitico e la trombatura del voto popolare, del suo trasferimento di sede una volta tornato a fare il magistrato.

Sarebbe impensabile che un politico di lunga carriera, dopo una militanza partitica consolidata, passasse nei ranghi della magistratura, a fare il pubblico ministero e il giudice. Invece il passaggio opposto è considerato naturale, e anzi utile, quando invece costituisce una abnorme e pericolosa deviazione del corretto funzionamento della democrazia, dove i politici devono fare i politici e i magistrati i magistrati, se il sistema vuol stare in piedi e non implodere su se stesso.

La porta girevole che conduce tranquillamente dalle inchieste di spicco alla carriera politica, dalla toga a fare il sindaco nelle stesse città in cui si è svolto il ruolo di magistrato (non solo Emiliano, ma anche Luigi De Magistris a Napoli), inquina la stessa attività giudiziaria dei magistrati, tentati di protagonismo mediatico-giudiziario esasperato (e spesso senza fondamenti, come dimostrano i risultati delle indagini) al fine di crearsi una notorietà spendibile poi sul piano politico-elettorale. Ma soprattutto inquina la politica, perché trasmette l'idea che la politica sia per definizione «sporca» (celebre l'affermazione di Pierluigi Davigo, in predicato di incarichi ministeriali in un eventuale governo grillino, parlando dei politici: «Non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti»). Quindi, l'assioma porta a concludere: serve il giudice che governi e guidi il partito. Pertanto, al posto della politica va sostituito il codice penale, al posto delle scelte di governo vanno preferiti i ricorsi al Tar e alle varie corti.

In questo l'acclamazione di Pietro Grasso a capopartito di una costola della sinistra, quella più conservatrice e legata agli anni Settanta, è emblematico della degenerazione avvenuta a sinistra e dell'involuzione giustizialista di una storia importante che con personaggi di grande levatura, da Palmiro Togliatti a Giorgio Napolitano, mai avrebbe ammesso un corto circuito del genere.

Del resto fa il paio alla stessa involuzione, quasi una rincorsa a chi è più giustizialista, diventata emblema partitico del Movimento CinqueStelle, che appunto ha come miti fondativi e modello di azione politica magistrati quali lo stesso Davigo o Nino Di Matteo, che interviene ai raduni grillini.

L'assioma di fondo è che il diritto abbia la primazia su tutto (come è già avvenuto in campo etico). Cioè non servono le scelte politiche, ma le procedure formali, le regole, le corti giudiziarie, come se la democrazia vivesse solo di pandette, e non dovesse venir sostanziata da contenuti, decisioni, volontà espresse dall'elettorato, capacità di governo (oltre che condizioni di governabilità). Cioè dalla forza politica, che è quella che permette di intraprendere decisioni importanti per il Paese e il suo futuro, dalla politica estera a quella industriale a quella dello sviluppo economico.

Affidarsi solo ai ricorsi o ai referendum, o alle sentenze dei magistrati, non ci dice quale idea di domani e di crescita futura ha un Paese, ma ci parla molto della sua immobilità e debolezza istituzionale. Perché una democrazia funzioni non basta Hans Kelsen, cioè il trionfo del normativismo; ci vuole anche Karl Schmitt, cioè il bilanciamento con la forza politica di fare scelte e decidere nei momenti in cui è richiesta la decisione. Del resto la Repubblica di Weimar ha portato al nazismo, perché troppo debole non perché troppo forte. Il rischio - e in Italia è già avanzato - è che si configuri una «repubblica giudiziaria», fondata a sua volta su una «società giudiziaria» convinta che i magistrati non debbano applicare la legge, ma interpretarla schierandosi da una parte, ponendo il diritto penale centrale e prioritario rispetto ad ogni altra valutazione della vita economica, sociale e politica della nazione.

Memorabili le parole di Alexander Soljenitzin, uno dei più grandi scrittori del Novecento, imprigonato in Siberia dal totalitarismo comunista: «Una società senza un sistema legale obiettivo è terribile. Ma una società basata solo sulla lettera della legge sprigiona un'atmosfera paralizzante di mediocrità spirituale ed è e destinata a fallire». Parole che sembrano scritte per l'Italia di oggi. p.giovanetti@ladige.it Twitter: @direttoreladige

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