Sessant'anni fa la "Notte dei fuochi": l'analisi e il racconto nel blog di Luigi Sardi
Con l'espressione Notte dei fuochi (Feuernacht in tedesco) si indica la notte tra l'11 e il 12 giugno 1961, quando un gruppo di terroristi sudtirolesi, aderenti al Befreiungsausschuss Südtirol, compirono numerosi attentati dinamitardi. In Alto Adige, durante tale notte vengono solitamente accesi i cosiddetti fuochi del Sacro Cuore in ricordo della vittoria di Andreas Hofer contro le truppe francesi napoleoniche
TRENTO. Quell’11 giugno di 60 anni fa era una domenica, la domenica del Sacro Cuore ricorrenza che, per tradizione, la popolazione di lingua tedesca del Sudtirolo celebra con i fuochi del solstizio. Appena cala la sera su tutti i monti vengono accesi centinaia di falò, suggestive luci a punteggiare le radure raffigurando aquile tirolesi, cuori, soprattutto la magica cifra “1809” a ricordare e celebrare e festeggiare l’ avventura partigiana guidata da Andreas Hofer che fronteggiò da Rovereto ad Innsbruck le armate dei francesi di Napoleone.
L’ 11 giugno del 1961, in quella notte però fredda di fine primavera, gli abitanti di Bolzano si erano addormenti mentre i falò invece di spegnersi, continuavano ad ardere sulle creste e nelle radure, anzi sembrava che le fiamme venissero ravvivate come se quei gioiosi incendi non dovessero finire mai. Attorno all’una la prima esplosione con l’ acuto rimbombo, ingigantito e moltiplicato dall’eco, poi un’altra e un’altra ancora mentre Bolzano piombava in un buio spettrale rotto, a tratti, dal guizzare di lampi azzurrognoli che serpeggiavano dai cavi dell’alta tensione nell’attimo del crollo delle torri d’acciaio dei tralicci. La gente si era svegliata, rivestita in fretta; c’era chi s’affacciava alle finestre e chi scendeva nelle strade attraversate da automezzi della Polizia, dei Carabinieri e dell’Esercito che sembravano muoversi senza un meta. C’era panico; impressionavano, vicino alle caserme, i militari con gli elmetti e il Garand in pugno e in molti pensarono che l’esercito austriaco stesse arrivando dal Brennero bombardando Bolzano con l’artiglieria.
Questa era anche la convinzione di un ufficiale dell’Esercito. Fermò, puntandogli addosso la rivoltella, un cronista dell’ Alto Adige che in sella ad una Lambretta stava arrivando a passo d’uomo nelle immediate adiacenze del portale di una caserma. “Spegni subito il faro, l’Austria ci attacca” disse con voce forte e chiara mentre un gruppo di militari stava rizzando con sacchetti di sabbia un qualcosa che nel buio quasi totale poteva sembrare una trincea. Impossibile avventurarsi oltre quei militari, meglio spegnere il fanale e quanti negli anni Sessanta hanno guidato uno scooter ricordano benissimo come era scarsa e tremolante la luce del citato “faro”. Incredibile il solo pensare che la Repubblica italiana venisse attaccata dall’Austria, ma era facile capire che la tensione separatista tirolese stava diventando violenta rivolta. Spaventando tutti. E in quella notte buia, sulla soglia della caserma, si poteva anche pensare ad un attacco militare.
E’ l’alba. Livida, con improvvisi scrosci di pioggia. Pattuglie con le armi spianate presidiano la sede della Rai,l’edificio delle poste, la stazione ferroviaria, palazzo di giustizia, la sede dei giornali Alto Adige e Dolomiten e quella del Msi, il Movimento Sociale Italiano dove, questo è il ricordo di un testimone di quella giornata, l’avvocato Andrea Mitolo aveva esposto il Tricolore e radunato i camerati. Dalle mastodontiche ricetrasmittenti montate sui veicoli militari si apprende che ad Appiano è stato incendiato un deposito militare, che ci sono state esplosioni in val Sarentino e attorno a Merano, che sono crollati 37 tralicci dell’alta tensione e altre torri d’acciaio sono state gravemente danneggiate.
Bolzano riprende la consueta attività dopo una notte insonne e di paura; in direzione di Trento la statale del Brennero – all’epoca non c’era l’autostrada – è deserta, i campi vuoti, nessuna luce dalle finestre delle case. Pioviggina, fa freddo e sull’asfalto nel tratto fra Salorno e Cadino, all’altezza di una baracca dell’Anas c’ è un corpo. E’ bocconi, quasi nel mezzo della carreggiata, un braccio sembra troncato. Nell’aria, odore di esplosivo. Appoggiata alla siepe una bicicletta da uomo, di colore nero con attaccata alla canna una scopa di saggina e un badile, due strumenti da lavoro degli stradini. Per terra c’è anche un berretto con visiera. Da Trento arrivare un automezzo dei Carabinieri.
L’autiere rimane accanto al veicolo, la rivoltella in pugno mentre scendono il capitano Federico Marzollo, il capo della procura della Repubblica Luigi Spadea con il segretario Gino Manunta, il sostituto procuratore generale Catullo Zanfei, i brigadieri dell’ Arma Vignola e Baita. Arrivano i carabinieri delle stazioni di Salorno e San Michele con il capitano Balestra e il maresciallo Ettore Paiar, il corpo viene girato, il petto è dilaniato, il cadavere viene identificato: è il cantoniere dell’Anas Giovanni Postal residente a Grumo. Lo ha ucciso l’esplosione di un ordigno collocato dai separatisti tirolesi del BAS, il Befreiungsausschuss Südtirol, il Comitato per la liberazione del Sudtirolo, fondato da Sepp Kerschbaumer commerciante di Frangart, minuscolo e bellissimo borgo situato lungo la Strada del Vino e da Luis Amplatz giovanissimo agricoltore di Bolzano, ai piedi di un palo: cadendo di traverso sulla strada, avrebbe dovuto segnare, simbolicamente, la nuova barra di confine fra il Tirolo e l’Italia. Postal lo aveva strappato dal palo. L’esplosione lo aveva ucciso.
Giovanni Posta era quel cantoniere dell’Anas che lunedì 27 marzo, data nella quale si celebrarono i 150 anni dell’Unità d’Italia, aveva scoperto sulla facciata della baracca-deposito di attrezzi la scritta “Hier ist Südtirol”, alcuni manifesti con la firma Bas e quattro candelotti di esplosivo legati al tronco di un albero con 15 metri di miccia che si era spenta. Postal portò ogni cosa ai Carabinieri intervisto e fotografato dai cronisti dei giornali L’Adige, Alto Adige e Il Gazzettino. Così in quella mattina successiva alla notte di terrore, quando scorse un involucro attaccato al tronco di un albero che tranciato dall’esplosione avrebbe dovuto diventare una sbarra attraverso lo stradone a segnare il simbolico nuovo confine, non esitò. Sceso dalla bicicletta, lo staccò e con il movimento rimise in funzione il congegno di accensione che si era inceppato e quella fu l’ultima deflagrazione della “notte dei fuochi”, la “Feuernacht” e Postal la prima vittima di una lunga stagione di angosce, di dolori, di odio. Il suo gesto venne onorato con la Medaglia d’Oro al valor civile e il Presidente del Consiglio dell’epoca omaggiò la vedova Elvira Visentini e la figlia Gemma di 23 anni con un cesto di rose bianche; un cippo – poi spostato quando si rettificò quel tratto di statale – ricorda quella tragedia e la morte di un uomo caduto eseguendo il suo dovere.
Nel marzo del 1964 Luis Amplatz intervistato dal settimanale tedesco Der Spiegel dichiarerà: “Sfortunatamente lo stradino italiano Giovanni Postal aveva scoperto la carica il cui congegno di accensione non era scattato e toccandolo ha causato l’esplosione”. Poi ai giornalisti tedeschi che pubblicheranno quell’intervista fatta mentre era in corso a Milano il processo a 95 sudtirolesi e 6 austriaci con il titolo: “Gli italiani ci hanno rubato la terra natia” raccontò che era stato arrestato tre volte e interrogato trenta volte, indicò le tecniche usate negli attentati, l’addestramento teorico e pratico in parte preso da un opuscolo intitolato “La resistenza totale” in uso ai sottufficiali dell’esercito svizzero, il reperimenti dei materiali esplosivi e delle armi, il costo della donarite, l’esplosivo abitualmente adoperato e una storia oscura di finanziamenti provenienti dalla Svizzera, dall’Austria, Germania e persino dagli Usa.
Questa parte di articolo venne integralmente ripresa nel maggio del 2013 per il giornale l’Adige, da Giorgio Postal, già deputato e senatore per sei legislature, sottosegretario di importanti dicasteri, tra cui il Ministero degli Interni, il politico trentino che più di altri ha studiato il tempo del Sudtirolo. Davvero arrivarono quattrini dagli Stati Uniti? E’ stata una boutade di Amplatz o dei due giornalisti che lo avevano intervistato? O gli americani volevano, con gli attentati in Alto Adige, mettere in difficoltà Aldo Moro e la sua politica di apertura verso il Pci? C’ è qualcosa che, conservato a Roma negli armadi di Forte Braschi inviolabile deposito di segreti di Stato possa, e sarebbe ora, illuminare gli italiani?
Primavera difficile quella del Sessantuno. Il muro di Berlino aveva potato la guerra fredda sull’orlo di quella atomica. A Cuba era fallita l’invasione, via mare, degli anticastristi insabbiati nella Baia dei Porci, Cipro si ribellava agli inglesi e l’Algeria voleva l’indipendenza dalla Francia. In casa nostra quello era anche l’anno del Sifar, del “Piano Solo” del generale dell’Arma Giovanni De Lorenzo, un colpo di stato che doveva rovesciare la Repubblica mentre nelle piazze i fascisti gridavano “Ankara, Atene, adesso Roma viene” con il grande giornalista Indro Montanelli a scrivere sulle pagine del Corriere della sera “che proprio nel momento in cui l’Inghilterra si accinge ad abbandonare Cipro, noi abbiamo la nostra ridicola, assurda pretesa di trattare la questione sudtirolese come un problema esclusivamente italiano con il rischio di trasformare il Sudtirolo in una piccola Algeria europea e in un’ aiuola di odio nazionalista”. Come puntualmente e violentemente avvenne.