La storia della Sloi: la fabbrica allagata nel 1966

di Luigi Sardi

E’ la fine dell’ottobre del 1966. Sul Nord Italia, in particolare su Firenze, Genova, Venezia e anche sul Trentino piove e piove e piove. Un vento di Scirocco , chiamato Ghibli in Libia, l’unico che spinge fino da noi la sabbia del deserto del Sahara, scioglieva rapidamente la neve, davvero abbondante, che aveva ricoperto le montagne appena sopra i 700 metri ingrossando torrenti e persino ruscelli, come quello appena a nord di San Michele all’Adige, solitamente in secca. L’Adige, l’Avisio, il Noce, la Fersina crescevano a vista d’occhio e dalle vallate le notizie che arrivavano alla redazione del giornale “Alto Adige” erano sempre più frammentarie, ma confermavano una situazione di crescente allarme, addirittura di pericolo incombente. Soprattutto la Fersina, là dove si getta nell’Adige, faceva paura. In un rumore assordante sembrava un’enorme coda di gallo che rallentava lo scorrere del fiume arrivato in poche ore ad una quota d’allarme ingrossato a dismisura dalla terribile piena dell’Avisio a stento trattenuto dalla diga di Stramentizzo.

Smottamenti, frane, paesi isolati, linee telefoniche ed elettriche interrotte e comunicazioni garantite dalle ricetrasmittenti dei Carabinieri. Scende la notte del 4 novembre, quella dell’alluvione. Poche ore prima nell’ufficio del Genico Civile il direttore Federico Menna aveva preso una decisione coraggiosa quanto estrema: trattenere alla diga di Santa Giustina l’acqua del Noce oltre il massimo livello di sicurezza.

L’Adige rompe a nord della città, dilaga nelle campagne, riprende il suo antico letto quello che correva lungo via Brennero poi via Torre Verde e Torre Vanga. A mezzanotte un nuovo allarme. Ci sono scoppi violentissimi a Campotrentino, la strada all’imbocco di Corso degli Alpini è bloccata dalla piena che avanza, gli scoppi continuano anzi si intensificano, i vetri della case del quartiere di Cristo Re tremano, centinaia di persone si assiepano di fronte all’Hotel Everest e più in su, il buio è rotto da un lampeggiare continuo che illumina una nube lattiginosa che sale sempre più in alto. Si sente dire che un operaio della Sloi è arrivato all’Hotel Everest, ha camminato dallo stabilimento con l’acqua alla cintola e ha detto che era scappato perché tutto scoppiava e molti lavoratori erano morti.

E’ necessario raggiungere lo stabilimento e il fotoreporter Giorgio Salomon si mette a cercare un canotto, lo trova fra i suoi conoscenti in via Giusti: è una canoa piuttosto lunga, senza deriva con una prua appuntita e uno specchio di poppa verticale, senza timone. E’ la metà di un serbatoio esterno di un caccia della Luftwaffe finito, chissà come, in via Giusti e trasformato in natante. Ha un fuoribordo di piccole dimensioni e un secondo di rispetto, ancor più piccolo con incorporato il serbatoio. La canoa viene varata in Corso degli Alpini. Saliamo in cinque perché uno che era fra la folla aveva voluto imbarcasi a tutti i costi. Il fuoribordo batte regolare, la corrente contraria è forte, il buio totale e rotto solo dal quel continuo esplodere sopra la Sloi coperta da un pennacchio di vapori bianchi e grigi, attraversato da bidoni - erano quelli pieni di sodio - che pesavano ciascuno, se non ricordo male, 80 chili: esplodevano al contatto con l’acqua che continuava a salire, volavano di nuovo in aria come proiettili da mortaio per ricadere, riesplodere, tornare in aria. Finalmente si approda nell’interno della portineria della Sloi, un operaio che indossa un autorespiratore e calza una tuta di gomma, afferra la prua della canoa, io vengo sollevato di peso d Lino Floria: a bordo del canotto salgono la moglie del custode e due bambine . E’ troppo pericoloso tenerle lì, forse era èpiù periglioso imbarcarle anche se la corrente è favorevole per il ritorno.

Si sale al primo piano dell’edificio, il rumore è assordante perché decine di bidoni di sodio scoppiano man mano che l’acqua , crescendo, li raggiunge. Le uniche fonti di luce, oltre ai lampi delle esplosioni, sono le lampade a mano degli operai. Poi dal balcone di Montevideo dove i soldati del genio hanno piazzato una fotoelettrica arriva un abbagliante fascio di luce e la situazione si fa meno pesante. Passano le ore, la squadra di sette operai restata nello stabilimento era riuscita ad aprire in tempo certe valvole scongiurando, con un lavoro certamente coraggioso, l’esplosione di alcuni depositi di materiale probabilmente tossico ; la massa di acqua circoscrive e spegne gli incendi evitando che le fiamme raggiungessero i deposi del piombo tetraetile e, finalmente, arriva con l’alba e un mezzo anfibio dei vigili del fuco arrivati da Rovigo e così si sgombera la Sloi mentre migliaia di metri cubi d’acqua dopo aver “lavato” il complesso industriale, defluiscono sulla città fin quasi a Piazza Duomo e Piazza Mostra che diventerà, per alcuni giorni, il porto di Trento perché ai piedi del castello attraccheranno i natanti del genieri che percorrevano quelle vie della città assediate dall’acqua.

Quattordici giorni dopo nella Trento che sta riemergendo dalla catastrofe, era arrivato il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Dopo aver sopportato per un po’ il cerimoniale di benvenuto, era stato portato a vedere i quartieri più colpiti ed era arrivato, passando sull’argine del fiume tornato ai consueti livelli di tardo autunno, alla Sloi dove squadre di operai lavoravano nel fango. C’era con Carlo Luigi Randaccio, stivaloni di gomma, occhiali scuri, badile in mano, il direttore Mario Pedinelli. “Dobbiamo ricostruire tutto” e Saragat risponde: “Il coraggio, come vedo, noi manca. Ancora coraggio e in bocca al lupo” . Era la “benedizione” politica del complesso chimico che veniva ripulito. Attorno a Saragat c’erano gli uomini che guidavano il Trentino: Celestino Margonari, l’avvocato Flavio Mengon i, il senatore Remo Segnana, Giorgio Grigolli. Accatastati sul vasto piazzale, la massa dei rottami dei barili, quelli pieni di sodio, che erano esplosi ed erano stati recuperati nelle campagne attorno al complesso industriale.

La Sloi riprende la su attività a pieno ritmo; l’ Italia, il mondo intero, si muove su gomma, il piombo tetraetile – poi arriveranno altre formule chimiche che (mi pare) hanno mandato in soffitta la benzina super – ma il lavoro vertiginoso fa crescere il numero dei malati ma in pochi si interessano a quello che sarà un dramma crescente. Il lavoro comporta dei rischi, anche gli operai dovrebbero stare più attenti e tutto resta sullo sfondo dello sforzo industriale teso a rimettere in sesto l’ Italia dall’ alluvionata dopo quella terribile che aveva devastato il Polesine.

E’ l’11 novembre del 1970 quando Giuseppe Marchesoni, il sindacalista che nella primavera del 1960 aveva guidato con Sandro Schmid il famoso quanto a tratti violento sciopero dei cavatori del porfido di Albiano e dintorni, mi aveva consegnato la fotocopia della lettera firmata dal dr. Giuseppe De Venuto, il medico di fabbrica della Sloi con quella frase dirompente: “Purtroppo devo rammentare a codesta direzione che gli operai intossicati sono numerosi, che essi possono non di rado diventare degli invalidi, tarati nel sistema nervoso e nella psiche e possono anche morire in maniera tragica come è già accaduto”. Un’ accusa durissima, identica a quella del 31 ottobre del 1969 quando trenta operai erano entrati nel palazzo della Regione per chiedere all’allora assessore alla Sanità Bruno Fronza garanzie per la loro salute. Uno di loro incaricato di esprimere il pensiero collettivo aveva detto: “Alla Sloi si muore perché si è costretti a lavorare in un ambiente nocivo e nulla è stato fatto per migliorare le condizioni di lavoro mentre si è spinto il pedale della produzione”. Già nel famoso sciopero del Natale del 1964 non si erano avanzate richieste salariali in un’ epoca dove dominava il grido “meno ore più salario” – ma la tutela della salute non solo dei lavoratori ma anche della popolazione che viveva nei quartieri di Trento Nord; già il settimanale “L’Espresso“ all’epoca il più quotato, il più letto fra i settimanali, con il titolo “La morte a cottimo” aveva denunciato le precarie condizioni di lavoro da Trento a Taranto nelle famose acciaierie, riservando per Trento il titolo “Chi beve Sloi esalerà felice”.

Erano davvero molti quelli che nel segno della benzina, morirono in quegli anni di boom economico; 23 maggio 1967, alle 10 del mattino, un operaio che aveva 24 anni, sposato da 13 mesi ed in procinto di diventare padre per la seconda volta, ferma la sua automobile nel mezzo del ponte di San Giorgio, spalanca la portiera, attraversa correndo la strada e si getta a capofitto nelle acque dell’Adige. Riemerge oltre le pile del ponte, grida, invoca aiuto e pochi istanti dopo viene travolto dalla corrente, inghiottito dal fiume. Un dramma inspiegabile. Un insegnante che stava attraversando il ponte aveva visto quell’auto fermarsi di colpo, quell’ uomo che si chiamava Giovanni Susat correre gridando e gettarsi oltre la spalletta. Dissapori familiari? No. Si era sposato il 23 aprile del 1966, sua moglie aveva 19 anni, la coppia aveva già un figlio e viveva in serena armonia. Poi si era sputo che da novembre a febbraio aveva lavorato alla Sloi e in quel periodo si era registrato, nelle sue condizioni fisiche, un deperimento. Di più non si era potuto apprendere e la Sloi aveva negato di aver avuto Giovanni Susat, che abitava a Meano, fra i suoi dipendenti.

Molti anni dopo, nel 2005 nel centenario della Cgil, il segretario generale della Camera del Lavoro Guglielmo Epifani scriverà nella prefazione al quaderno “Sloi fabbrica dei veleni” voluto dall’ Editore Sergio Bernardi: “La storia industriale del nostro Paese, in molti, troppi casi, è stata anche la storia della negazione di uno dei primi diritti che va riconosciuto ad ogni persona: il diritto alla salute, il diritto a non essere uccisi dal proprio lavoro… La vicenda dalla Sloi di Trento appartiene a questa storia di diritti negati. La fabbrica dei veleni ha disseminato lungo decenni uno spaventoso carico di tragedie, infortuni, intossicazioni, disturbi neurologici, uomini morti in manicomio, enormi danni ambientali per i quali si sta ancora cercando una soluzione”. Che non c’ è ancora. Che si vorrebbe scalcare, questo è il sospetto, quando si scaverà per il tracciato di una contestata tratta ferrovia.

Però negli anni successivi all’alluvione si guardava, soprattutto, alla sorte degli operai per scoprire che una “commissione medica” – di più non si era saputo – aveva “visitato lo stabilimento ma lo stabilimento funzionava a vuoto” e un operaio aveva dichiarato: “A fare l’indagine siete andati dove ha voluto il direttore [della Sloi]… non siete andati al forno vecchio , alla lega, al deposito dei fanghi”.

A proposito di quel deposito che avevano l’acre odore dell’Adigetto quando scorreva a cielo aperto in Piazza Dante, si era capito che una buona parte del contenuto di quella pattumiera chimica sprofondava nel terreno. “Le scorie vanno sepolte in profondità. Mica si possono tenere così, all’ aperto. Si scavano fosse, si colmano di scorie, sopra si getta la terra”.

Anche a Prestavel le scorie venivano ammassate su quelle dighe cresciute senza un progetto, una sopra l’altra e poi crollate di colpo falciando Stava. Molto tempo dopo si apprese che la pluralità dei componenti di quelle scorie interrate dalla Sloi, dalla Carbochimica e dalla Prada – non la ditta che produceva elegantissime quanto costosissime borsette, ma naftalina e altri “sapori” – possono resistere a lungo. Anche mille anni.


 

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