Gli ottant'anni della Portela: la tragedia che cambiò la storia
PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
QUARTA PARTE La speranza di pace dura poco
QUINTA PARTE I tedeschi prendono il controllo
SESTA PARTE Un esercito in rotta
SETTIMA PARTE Gli italiani come schiavi
OTTAVA PARTE Una marcia verso il Brennero
NONA PARTE Si gettano le basi dell'autonomia
DECIMA PARTE Il tempo della clandestinità
UNDICESIMA PARTE La corsa nei rifugi
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento
Quello raccontato attorno ai tragici giorni della Portéla, è il tempo meno ammirabile che il genere umano abbia conosciuto per molti secoli.
E’ il clima dell’Italia che si era prostrata davanti a Benito Mussolini diventando fascista, e alle fatali decisioni del dittatore voluto dal popolo, osannato come in Germania, in Austria e nel Sud Tirolo - bisognava chiamarlo Alto Adige secondo il dettato di Ettore Tolomei - veniva venerato Adolf Hitler, uno dei demoni che calpestarono l’umanità. Sia ben chiaro: ce ne sono altri che continuano a calpestarla e che, rischiando di perdere la faccia, possono perdere la testa al punto di pigiare quel bottone capace di cancellare l’uomo o di farlo regredire all’età della pietra. La gande paura era cominciata il 3 settembre, il giorno dopo il bombardamento che devastò la Portéla con quella guerra arrivata dal cielo sulla città totalmente indifesa.
Eri costretto a vivere nell’ansia, in attesa del grido della sirena, giorno e notte e c’era quella preghiera recitata forse non solo dai bambini: “Ave Maria, gratia plena - fa che non suoni la sirena - fa che non vengano gli aeroplani - fammi dormire fino domani”. All’improvviso li sentivi arrivare, un ronfare lontano che percepivi appena nel silenzio totale della notte. Un rumore monotono, regolare che cresceva, riempiva il cielo fino a diventare possente, violento, insopportabile. I vetri della finestra attraversati dalle strisce di carta gommata che, in caso di rottura dovevano trattenere i frammenti di vetro cominciavano a tremare. Allora e solo allora toglievi quei miseri rotoli di brandelli di stoffa cuciti fra di loro e collocati lungo il telaio di legno per turare gli spifferi e spalancavi la finestra tenuta ben chiusa per difendersi dal freddo. Il buio era completo. Non un lampione, un lumino, una luce schermata, oscurata, neppure il vago riflesso di una candela.
La città si era svegliata appena si era diffuso quel rumore, era corsa alle finestre e guardava il cielo coperto dalle nuvole. Adesso il rombo dei motori percuoteva tutta Trento, non li potevi vedere ma capivi che su, in alto, invisibile e irraggiungibile, passava una squadriglia dopo l’altra. Il rombo non aveva sbavature di sorta. Era totale, era perfetto. Era invincibile. Sapevi che quella massa di quadrimotori era diretta a nord, in Germania. Sapevi che magari su Monaco di Baviera era già suonato l’allarme, che la gente stava correndo nei rifugi e si preparava una grande battaglia: centinaia di morti in cielo perché la contraerea era davvero possente, migliaia di morti in terra perché i quadrimotori avrebbero sganciato tonnellate e tonnellate di bombe, dirompenti, incendiarie, a scoppio ritardato così esplodevano quando l’allarme era cessato e si recuperavano feriti e morti e quelle che penetravano profondamente nel terreno in cerca delle gallerie dei rifugi. Passavano quasi ogni notte. In quelle con la luna piena si vedevano benissimo gli aerei stagliarsi nella luce e se era estate e i grilli frinivano senza posa, bastava quel rumore ancora lontano per farli tacere. Sembrava che anche le lucciole sparissero, assieme ai pipistrelli spaventati da quel rumore di morte. E allora non potevi più stare in casa perché, anche se l’allarme non era suonato in quanto da qualche parte avevano capito che quelle masse d’aerei avevano ben altri e più lontani bersagli, raccattavi le poche cose e correvi verso il rifugio. Era la guerra che veniva dal cielo contro la quale non avevi riparo.
Certo, quando si cominciarono a scavare i rifugi, troppo tardi per salvare la gente della Portela, in quel budello di roccia ti sentivi abbastanza protetto. Ma poi qualcuno aveva raccontato che un grappolo di bombe - si vedeva benissimo che non cadevano da sole, ma a grappoli - era esploso davanti all’ingresso di un ricovero e tutti, proprio tutti, erano morti sepolti dalla roccia crollata. Così in molti scelsero la fuga dalla città e il termine “sfollato” divenne d’uso comune. A Civezzano, in Piné, a Vigolo Vattaro, insomma lontani ma non troppo dalla città, bersaglio dei bombardieri. Erano i B17, i Boeing “Flying Fortress”, Fortezza Volante, una terrificante macchina da guerra costruita nell’arco del conflitto, in 12.731 esemplari mentre il B-24 Liberator venne costruito in 18.188 unità contro i 500 esemplari del bombardiere tipo della Regia Aeronautica, il Fiat B.R.20 “Cicogna”. Quegli aerei bombardarono l’Europa dominata dal Terzo Reich. La prima incursione venne condotta il 17 agosto del 1943 da 315 B.17 che attaccarono, a prezzo di enormi perdite, Schweinfurt e Regensburg scaricando, pare nel corso di quell’anno, 135.000 tonnellate di ordigni sulla sola Germania. La sigla B-17 sintetizza le vicende e le leggende di questo aereo che forse più di ogni altro rappresentò la potenza della macchina bellica americana. Era un quadrimotore con 10 persone di equipaggio, lungo 22,66 metri con un’apertura alare di 31,62 metri, una velocità massima di 462 chilometri ora, un’autonomia di 3220 chilometri, 13 mitragliatrici con nella carlinga 8000 quintali di bombe. Il rumore dei suoi motori Wright R1820-65 Cyclone era terrificante, la carlinga grigia si stagliava benissimo nel cielo assieme alle fiammelle eruttate dalle mitragliatrici collocate nella torretta istallata a prua, appena al di sotto della posizione del navigatore-bombardiere, il soldato che oltre a scegliere la rotta di avvicinamento, identificava e puntava il bersaglio sempre uguale, sempre monotono: città distrutte, migliaia di vittime.
Il prezzo pagato per la vittoria. Quando venne bombardato il Duomo di Colonia “Il Brennero” pubblicò che nei cieli della Germania erano stati abbattuti 2400 aerei Alleati con 10.000 uomini di equipaggio fra morti, feriti, prigionieri. Forse la notizia era come al solito esagerata, forse era vera: sulla Germania fu una strage senza fine anche fra gli equipaggi dei bombardieri. Finita la guerra migliaia di soldati italiani finirono dai Lager ai gulag, dagli aguzzini tedeschi a quelli sovietici. Lo ha raccontato il “Corriere della Sera” del 24 febbraio 1995.
Quel destino era toccato a migliaia di russi fatti prigionieri dai tedeschi e liberati nell’avanzata dell’Armata Rossa solo per essere trasferiti nei gulag siberiani “colpevoli” di essere stati per anni nelle mani del nemico. Una sorte forse toccata anche a moltissimi occidentali, italiani compresi, che avrebbero finito i loro giorni non in Germania, come si è sempre creduto, ma in Russia. La tesi era stata sostenuta dal giornale moscovita “Kommersant” anche sulla scorta delle indagini compiute da un ricercatore di Parigi. Lo studioso francese si sarebbe infatti imbattuto - la documentazione in verità è ancora molto scarsa - in documenti che provano il terribile calvario subito da americani, inglesi, francesi e soprattutto da italiani. I russi avrebbero censito accuratamente i soldati fatti prigionieri dai tedeschi e liberati dall’Armata Rossa. Ci sarebbero 3.000 inglesi, altrettanti americani, quasi tutti aviatori, francesi e oltre 11.000 italiani. Molti di questi scampati dai Lager finirono in Unione Sovietica. Nel marzo del 1945 vennero spediti, nel campo di transito di Odessa sul Mar Nero, o meglio nel campo di Balta poco a nord di Odessa che era solo una stazione di smistamento sulla via che portava ai gulag. Quando nel 1956 venne spazzato via il mito di Stalin, molti di questi stranieri inghiotti da 11 anni nei territori dell’Unione Sovietica, vennero liberati, ma continuarono a vivere nell’Unione Sovietica nascondendo le proprie origini. Avevano scelto di vivere in Russia dove avevano trovato un lavoro, molti si erano sposati: oggi sappiamo che il progetto della CCCR (Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) era di convincere, o costringere, gli italiani prigionieri a “rimpiazzare” la massa degli uomini russi uccisi nella guerra.
Poi su questa vicenda è tornato il silenzio perché, lo ha scritto Sergio Romano sul “Corriere della Sera” del 16 marzo 2013, “nelle maggiori società dell’Europa occidentale la critica del nazismo e del fascismo fu amplificata dai grandi movimenti studenteschi del Sessantotto. Quei moti furono in buona parte una rivolta generazionale contro i padri, colpevoli tra l’altro di aver favorito o tollerato il fascismo, il nazionalismo, l’imperialismo, il colonialismo”. In Russia, scrive Sergio Romano, “questo fenomeno non ha mai avuto luogo. Non accadde nel 1968, quando ogni movimento popolare sarebbe stato immediatamente represso dal sistema sovietico. Non accadde dopo il suo collasso perché la morte dell’Urss non fu provocata da una insurrezione popolare, ma da una grande operazione trasformista al vertice di un regime fallito. Gli uomini che andarono al potere dopo le dimissioni di Gorbaciov non erano liberali o socialdemocratici. Appartenevano alla classe dirigente dello Stato comunista, non avevano alcun interesse a promuovere epurazioni in cui sarebbero stati inevitabilmente coinvolti”. Insomma fu impedito che i gulag e le purghe diventassero tema di un grande esame di coscienza nazionale. Mario Girardi da Povo è testimone se non dei gulag, del lavoro forzato al quale vennero obbligati prigionieri italiani.
Mi raccontò: “Quando decisi di abbandonare la famiglia tedesca nella quale ero obbligato a lavorare e la vidi allontanarsi nella neve, mi accodai ad una colonna di militari scortati da soldati russi. In testa camminavano i francesi, che erano prigionieri dal 1940. Poi c’erano i prigionieri tedeschi, quindi alcuni inglesi, forse aviatori e poi c’eravamo noi. Io mi ero preso un pezzo di lardo dal carro dei contadini tedeschi che si era rovesciato. Lo portavo sottobraccio, lo tenevo avvolto in uno straccio. La lunga colonna marciava molto piano perché gli uomini erano sfiniti, nella neve che turbinava. Non c’era da mangiare” - davvero la fame è stata una delle costanti in quella terribile tragedia – “né da bere perché l’acqua era tutta ghiacciata. Se un tedesco cadeva sfinito, veniva ucciso. Se cadeva un italiano, o un francese o un inglese, veniva abbandonato. Sarebbe comunque morto. La colonna marciava nella Bielorussia e arrivata in una cittadina nei pressi di Minsk, si accampò alla meglio e un ufficiale russo interrogava gli italiani. Chi era Garibaldi”? Girardi rispose: “E’ stato un combattente della libertà dei popoli oppressi”. Non è proprio vero, però i sovietici avevano, anche per via della camicia rossa, una grande passione per Garibaldi e in molte città vie e piazze – uliza e plosciad – sono intestate all’alfiere del Risorgimento. L’ufficiale indica una porta, Girardi entra in una stanza dove alcune donne soldato gli rasano i capelli e gli ordinano di rasarsi i peli del pube. La guerra è finita con la caduta di Berlino ma il lavoro forzato continua. Squadre di prigionieri devono tagliare grossi alberi in boschi infestati dalle zanzare, poi scavare la torba che alimenta una centrale. Blocchi di torba da estrarre dall’acquitrino, da impilare per asciugare, da caricare sulla decauville o sui grossi autocarri appena arrivati dagli Stati Uniti. Poi l’indottrinamento: le conferenze sul comunismo. In Italia, solo due anni prima, le reclute erano obbligate ad assistere alle lezioni di cultura fascista. La tragedia di quella guerra stava cambiando la storia.
(Fine)