Tragedia di Lampedusa Riflessioni di una 14enne
«Dopo il disastro avvenuto a Lampedusa - scrive Luisa Cicolini, studentessa 14enne del liceo Russel di Cles - mi chiedo cosa resti dell'Uomo. Del rispetto superficiale con cui abbiamo partecipato al minuto di silenzio per il lutto nazionale. Ognuno di noi, quel giorno ha riso, ha scherzato, è andato avanti con la sua vita che continuava, mentre invece, per trecento persone, ha avuto una brusca fine» I tuoi commenti
Dopo il disastro avvenuto a Lampedusa, mi chiedo cosa resti dell'Uomo. Della leggerezza con cui noi abbiamo vissuto questo giorno, della consapevolezza lontana di ciò che è accaduto. Del rispetto superficiale con cui abbiamo partecipato al minuto di silenzio per il lutto nazionale. Ognuno di noi, quel giorno ha riso, ha scherzato, è andato avanti con la sua vita che continuava, mentre invece, per trecento persone, ha avuto una brusca fine.
Ci sono stati momenti in cui abbiamo rivolto una silenziosa preghiera a quel numero, a quel trecento, perché potessero almeno morire in pace. Dopo una vita di guerra, una vita condannata al dolore, è loro diritto una morte serena, cullati dalle onde del mare scontrato col fuoco, il fuoco di un'esplosione, così simile a quello di una bomba. E l'acqua salata del mare, speriamo abbia almeno accolto le loro anime erranti in pace; speriamo che i nostri fratelli, perché è questo che sono, non abbiano sofferto troppo, siano stati gentilmente inghiottiti dalle onde dell'acqua chiara del mare di Lampedusa.
E loro erano a conoscenza del rischio, lo sapevano bene che magari non sarebbero più tornati, che andavano incontro ad un paese ostile, popolato da gente di tutti i tipi.
Trecento corpi, l'altro giorno, galleggiavano e affondavano davanti agli occhi negligenti di chi, quello spettacolo obbrobrioso l'ha visto al sicuro, seduto sulla spiaggia.
Trecento corpi galleggiavano davanti agli occhi dei soccorritori impotenti.
Trecento corpi, giovedì 3 ottobre sono morti.
Non importa perché, non importa di chi è la colpa. Sono morti. Nessuno di loro tornerà più indietro. Noi, «trecento» lo diciamo con una certa leggerezza lontana.
In fondo, sì, è una brutta cosa, ma non conoscevamo nessuno di loro, quindi per quanto ci può dispiacere non ci parrà mai qualcosa di estremamente triste.
Invece dovrebbe esserlo. Erano fratelli nostri. Ed in un universo infinito, presumibilmente popolato da qualcun altro, è facile sentire come anche noi siamo vicini a loro.
Perché ognuno di loro aveva un nome, una famiglia, un sogno erano venuti qui per amore o per odio. Per scappare da una guerra che li consumava. Si sono giocati un all-in, in questa partita. E, comunque, c'è qualcuno che sta bene. Bambini sono nati, felici con le loro mamme, nelle ultime ventiquattr'ore, nel nuovo mondo.
Da qualche parte, qui nel nord, c'è qualcuno che sorride, c'è una farfalla che svolazza spensierata, c'è una mamma che legge una fiaba a suo figlio.
E al sud, c'è un' altra mamma. Una mamma che suo figlio, non lo rivedrà più. Una sorella che ha perso un fratello. Un figlio orfano.
Nel mondo è così, c'è qualcuno che sta bene e qualcuno che sta male.
E il bene e il male convivono nella beata ignoranza di chi li abita. Di chi non sa che, dall'altra parte della terra qualcuno sta morendo di fame, proprio mentre lui addenta un panino.
Di chi, allo stesso modo, non sa che a migliaia di chilometri da lui c'è qualcuno che butta via del cibo. Lo stesso cibo che potrebbe servirgli per sfamare i bambini.
Bambini che muoiono, uno a uno, in una piramide demografica che si restringe sempre di più verso l'alto, opposta a quella che caratterizza il Vecchio continente e, più in generale, il Mondo del Nord.
Ieri qualcuno è morto. Giovedì molti «qualcuno» sono morti. Come a dire è morto Marco, Giulio, Anna, Maria e Claudio. Per trecento. Trecento stelle brilleranno nella notte, questa sera. Trecento cocci di trecento sogni infranti, di trecento speranze perdute, di trecento corpi che probabilmente non verranno mai recuperati, di trecento persone. E con loro, trecento fini di un cammino, di un ramo nell'albero della vita, trecento ferite nei cuori di chi li conosceva, delle loro famiglie. Trecento persone in meno sul pianeta Terra.
Trecento fratelli in meno per ognuno di noi. Sentiteli vicini, i vostri fratelli. Amateli, anche se non li avete mai conosciuti, al pari delle loro famiglie. Amateli con amore puro e sincero, con tutto l'amore di una madre e di un padre, che hanno perso i figli.
Fate tesoro di loro nomi, dei loro sogni, dei loro colori preferiti. Rinchiudeteli in uno scrigno e gettate la chiave in fondo al mare, dove loro giacciono sepolti da tonnellate di acqua salata. Resteranno al sicuro, trecento persone, così. E il mondo non dimenticherà che oggi ha perso altri trecento abitanti. Il mare si prenderà cura di loro. Viaggeranno, trasportati dalle correnti, dove esse vorranno, e, al sicuro in uno scrigno, staranno bene, come ognuno merita.
Luisa Cicolini
14 anni, di Pracorno di Rabbi, è studentessa del liceo classico Russel di Cles