S. Camillo, non ci fu errore Il paziente deve pagare
Nella causa degli alluci la spunta l'ortopedico
In primo grado i giudici gli avevano dato ragione accogliendo la sua richiesta di risarcimento per quell'intervento agli alluci, a suo dire non riuscito. In appello, l'ortopedico del San Camillo ha fatto valere le sue ragioni e la sentenza è stata rovesciata. Niente risarcimento e il paziente costretto a pagare le spese legali.
Protagonista un insegnante di 69 anni che nel 2004 e nel 2005 è stato sottoposto a due distinti interventi correttivi per l'alluce valgo ad entrambi i piedi. Il problema è che, a detta del paziente, - dopo gli interventi - sarebbero insorti una difficoltà a camminare, sanguinamenti e dolori. In pratica le condizioni dei piedi sarebbero peggiorate. Tramite l'avvocato Claudio Tasin l'uomo aveva avanzato la richiesta di risarcimento di non meno di 43 mila euro.
In primo grado si era costituito l'ospedale S. Camillo negando ogni responsabilità da parte del medico, ma il Tribunale, sulla base di una consulenza legale, aveva accolto la domanda e condannato ospedale e ortopedico al risarcimento di quasi 28 mila euro di danni.
Il medico ha proposto appello contestando i contenuti della consulenza. Nel ricorso veniva fatto presente che il primo giudice non aveva considerato che i disturbi lamentati dal paziente erano insorti a quattro-cinque anni di distanza dai due interventi, segno di una recidiva piuttosto che di un errore. Un secondo perito ha evidenziato che le tecniche utilizzate dall'ortopedico del San Camillo erano assolutamente adeguate alla patologia da curare e che «la recidiva costituisce una possibile complicanza di un intervento chirurgico come quello eseguito (10-16%)».
Sulla base della seconda perizia la Corte d'Appello ha quindi dedotto che il fatto che il paziente abbia deciso di operare il secondo alluce a distanza di oltre un anno dal primo, porterebbe a escludere errori dell'ortopedico in quanto altrimenti tali errori si sarebbero già dovuti palesare. Gli accertamenti per i dolori sopraggiunti sarebbero infatti stati effettuati a quattro o cinque anni di distanza dagli interventi e questo confermerebbe l'ipotesi della recidiva e della «predisposizione» del paziente a questa patologia.
Con la sentenza emessa il 10 maggio, la Corte di Appello ha riformato la sentenza del Tribunale emessa nel settembre del 2013 e ha condannato il paziente a pagare le due consulenze d'ufficio e le spese sostenute in primo grado (5.077 euro) e in secondo (6.680 euro). Inoltre ha condannato - sempre il paziente - a pagare le spese d'appello dell'ortopedico che ammontano a 6.680 euro. Il danno e la beffa, dunque. Il paziente non solo non sarà risarcito in quanto - secondo quest'ultima sentenza - non ci sarebbe stato nessun errore medico, ma dovrà pagare per aver promosso la causa.
In analoga situazione si trova una donna che aveva promosso una causa civile nei confronti all'Azienda sanitaria per un presunto ritardo di diagnosi di un tumore. Il tribunale di Trento aveva rigettato la domanda condannando la donna a pagare le spese legali quantificate in 20.124 euro. A febbraio di quest'anno la Corte d'appello ha rigettato anche il ricorso e condannato la donna a pagare ulteriori 6.660 euro. Considerato che fino ad ora la paziente non ha versato nulla di quanto dovuto alle casse dell'Azienda sanitaria, è stato proposto un atto di precetto da parte dei legali dell'Azienda stessa per recuperare il credito.