«Qui a far niente da 15 mesi: ora basta» La vita dei profughi dopo la protesta

di Matteo Lunelli

L’Unione Europea, e tutte le varie commissioni. Poi il governo italiano e in particolare il Ministero dell’Interno, la Provincia di Trento, con l’assessorato competente e l’apposito dipartimento, il Cinformi e infine chi lavora nelle cooperative e nelle associazioni, volontari e non. Si tratta di una breve e incompleta (ci sarebbero i Comuni, le forze dell’ordine, la Questura, gli avvocati, i medici) lista di tutti coloro che prendono le decisioni, dispongono i finanziamenti, impongono le regole e gestiscono la quotidianità dei richiedenti asilo, compresi quelli trentini.

Un sì o un no a una richiesta, magari legittima, a volte banale, dipendono da una decisione presa da una o più delle persone che lavorano in uno degli enti elencati. E quel sì o quel no può rappresentare la distruzione di tante aspettative e speranze. Questo, fondamentalmente, è il passaggio che manca a tanti dei richiedenti asilo che ieri hanno protestato. Sono passaggi difficili, a volte incomprensibili, che anche tanti normali cittadini non capiscono o contestano, per motivi politici o ideologici.

«Perché non posso cucinare il riso da solo?»; «Perché non posso andare in un appartamento come ha fatto il mio amico?; «Perché non posso lavorare di più?». Le domande sono queste, legittime e banali. Ma la risposta è difficile, a prescindere dall’opinione personale e politica.

Ingenuamente i cinquanta, forse cento profughi che ieri hanno protestato si aspettavano di riuscire ad avere delle risposte. Ma chi ha parlato con loro, che è almeno al settimo o ottavo posto della «catena di potere» sopra elencata, ha potuto dare delle spiegazioni e delle giustificazioni, ma non delle risposte definitive.

È stata una domanda verso la fine del confronto, che in alcuni passaggi è sembrato quasi un’assemblea studentesca, quando si protesta con la preside per le brioches a ricreazione o con la prof per i troppi compiti, a far capire quanto difficile sia la situazione. «Ma noi vorremmo avere la libertà di litigare tra di noi se c’è qualche problema dentro la camerata».

I dirigenti provinciali sono quasi sbiancati alla richiesta. «No! Non potete, non esiste. Ci sono regole». Quando i «capi» in giacca e cravatta se ne vanno, tanti richiedenti asilo iniziano a raccontare: i taccuini dei cronisti, i microfoni delle radio, le videocamere delle tv sono una possibilità per migliorare la loro situazione.

Ma ognuno ha i suoi problemi. «Aspettiamo da mesi di cambiare alloggio - spiega Raeman, pakistano - e ci avevano detto che sarebbe stata una cosa rapida. Invece nulla». Un altro pakistano, Raeman, e un problema diverso: «Sono qui da un anno, per un periodo ho lavorato alla Cantine Ferrari, ma ora non più. Perché? Io voglio lavorare, non ne posso più di non fare niente».

Arriva Alì, senegalese, è le criticità sono legate alla convivenza: «In otto in camera è difficile, c’è chi non fa le pulizie. Poi noi africani abbiamo più problemi, perché non abbiamo i parenti e gli amici che ci aiutano».

Alì ci racconta anche la sua storia: «Sono sbarcato in Sicilia e sono stato in carcere, perché con una pistola mi avevano costretto a guidare la barca contro la mia volontà: cosa altro avrei potuto fare?

Poi da otto mesi sono a Trento, mi piace e vorrei rimanerci a lavorare, ma per noi è difficile». Altro ragazzo, altra questione: «Un amico che prima era qui adesso è in appartamento è può fare la spesa e cucinare quello che vuole, noi invece no».

Storie, età, culture diverse e quindi priorità diverse. Intervistando i trecento ospiti di via Fersina probabilmente emergerebbero trecento problematiche ed esigenze diverse: non importanti in assoluto, ma importanti per ognuno di loro. Gestire tutto questo diventa difficile per chiunque e infatti, ciclicamente, le proteste in città si ripetono, con richieste simili.

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