Il dramma di Chico Forti: «Vivo in una giungla, riportatemi in Italia»
Da 10.519.200 interminabili minuti Chico Forti attende di tornare in libertà. Era l’11 ottobre del 1999 quando l’ex campione di windsurf venne arrestato dalla polizia di Miami con l’accusa di omicidio di primo grado per la morte di Dale Pike. Sembrava uno scherzo del destino, un clamoroso errore giudiziario che si sarebbe risolto in fretta. Invece sono trascorsi vent’anni - 7.305 giorni o se preferite 175.320 ore - e Chico Forti è ancora in carcere. Sconta una condanna all’ergastolo nella formula più inumana di LWOP, Life With Out Parole (in pratica il detenuto lascerà la prigione solo alla sua morte).
Chi in questi 20 anni si è interessato al suo procedimento giudiziario - dal compianto giudice Ferdinando Imposimato ai giornalisti della Cbs che di recente sono tornati sul caso - è arrivato ad una conclusione angosciante: in carcere c’è un uomo condannato alla morte civile senza prove. Senza neppure una manciata di veri indizi. Senza il diritto ad un processo d’appello. Senza la possibilità di veder crescere i suoi tre figli, atroce condanna nella condanna. Eppure non sono bastati 10.519.200 interminabili minuti per piegare Chico che oggi, come quell’11 ottobre 1999, ancora rivendica con orgoglio di essere innocente. Lo ha riconosciuto persino la macchina della verità, ma non la giustizia americana. L’italiano Enrico Forti detenuto 199115 - con cui in questi giorni ci siamo messi in contatto - conclude (per ora) i suo infinito curriculum sportivo all’anno 1999 quando iniziò - scrive - «the most extreme of all adventures…».
Vent’anni dopo non ha più importanza se Chico sia innocente o colpevole; se il processo sia stato viziato da molte irregolarità sul piano del diritto o se il verdetto di colpevolezza debba essere rispettato perché espressione unanime della giuria popolare. Oggi ci confrontiamo con la tragedia umana di un padre che dopo tanti anni in cella non può neppure sperare in un permesso per abbracciare i suoi figli, che erano bambini quando tutto cominciò e ora sono adulti. L’unica cosa che conta è portare via Chico dalle paludi della Florida, lontano da una sentenza che si è rivelata impossibile da scardinare con gli strumenti della giurisprudenza. Ora più che mai è il momento della diplomazia, dei governi.
Dopo tanti anni trascorsi dietro alle sbarre ad urlare la propria innocenza nella speranza che la giustizia trionfi, come succede solo nei telefilm americani, anche Chico è d’accordo. Chiede ai vertici delle istituzioni italiane - al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al premier Giuseppe Conte - di percorrere una strada nuova: uno scambio di prigionieri. Enrico Forti in cambio di un detenuto a stelle e strisce. Non è facile, ma vale la pena provarci. Chico pone una sola condizione: «Non mi dichiarerò mai colpevole. Comunque nello swap, lo scambio di prigionieri, non c’è questa clausola».
Chico aspetta, mentre il tassametro dei minuti continua a scorrere, inesorabile.
«Quanto alla vita qui dentro - racconta - le cose degne d’attenzione per ora, non te le posso raccontare… soprattutto ultimamente sono monitorato in tutto ciò che faccio. Le tante richieste per interviste televisive, l’essere ‘’famoso’’ forse possono suscitare interesse e domande nelle guardie intelligenti, ma nei colleghi in blu l’invidia è il sentimento prevalente. Questa è una giungla dove solo gli animali forti di corpo e mente sopravvivono…».
Nella giungla Chico ha dimostrato di sapersi muovere grazie ad una forza fisica e mentale sorprendente. In questo ventennio la scialuppa di salvataggio è stata la famiglia, biologica ma anche allargata.
Lo zio Gianni che, instancabile, ha fatto la spola attraverso l’oceano Atlantico incontrando ambasciatori e governanti; Maria che da 20 anni si alza al mattino e come prima cosa pensa al figlio prigioniero di una macchina infernale; l’amico Roberto Fodde che ha “adottato” il detenuto Enrico Forti; l’ex moglie Heather che si è ricostruita una vita ma ha sempre creduto nell’innocenza di Chico; il Comitato che si batte per la liberazione di Enrico Forti; le migliaia di amici, trentini e non, conosciuti e sconosciuti, che in questi anni hanno accompagnato Chico nella più estrema di tutte le sue avventure. «Senza il sostegno di tutti loro - ammette lui stesso - non sarei sopravvissuto». Ma più di chiunque altro, Chico in questi anni è rimasto aggrappato con il pensiero ai suoi tre figli, Savannah («viaggiatrice come me e top performer di danza hawaina); Jenna («che a tre anni preparò il suo zainetto per andare a salvare i suo papà), Francesco («ha seguito le orme paterne: ama gli sport estremi ed è un altruista».
Per Jenna Chico ha persino composto e fatto registrare una canzone: My Jenna Blu («…per te andrei fino in capo al mondo, per te farei qualsiasi cosa. Sei il sole che che mi illumina in un secondo…»). Dopo 20 anni di carcere duro Chico, nonostante tutto, continua a volare, a planare sulla cresta dell’onda. Come vede il futuro? «Rousseau - replica - ha detto che libertà significa poter scegliere le proprie catene...Il Trentino, i miei laghi, le mie montagne, la mia gente sono le mie catene benefiche, rappresentano il mio futuro. Spero poter continuare a fare ciò che conosco ed amo. Dedicare tempo ai tanti trentini che per tutti questi anni mi sono rimasti vicini, instancabili. Osservare il tramonto con veri amici al mio fianco. Sfrecciare nelle acque di Torbole e Riva col windsurf ed il catamarano. Camminare sul porfido nelle piazzette di Trento e Rovereto. Camminare sulla neve del mio Bondone, di Predazzo, Moena e Madonna di Campiglio. Camminare nei boschi in cerca di finferli e brise, andare in montagna col rampichino, mangiare la polenta, i canederli, gli asparagi, lo speck, i tirami su , i mirtilli, le mele... Tutte cose che da liberi, si danno per scontate...
Poter continuare a volare...»