Ecco come gli ungulati preistorici si adattarono ai cambiamenti climatici: lo studio del Muse
Analizzati quattro siti archeologici trentini: reperti databili fra 13 mila e 9 mila anni fa, ci danno anche indicazioni sulla vita degli uomini del Pleistocene
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TRENTO. Uno studio pubblicato sulla rivista Quaternary Science Reviews e condotto in collaborazione tra le ricercatrici e i ricercatori del MUSE - Museo delle Scienze di Trento, del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Ferrara e del Departamento Ciencias Históricas dell’Università della Cantabria (Santander, Spagna), ricostruisce l’evoluzione del comportamento di stambecchi e cervi tra la fine Pleistocene e l’inizio dell’Olocene (tra 13.000 e 9.000 anni fa) in risposta ai cambiamenti climatici, facendo luce anche sugli spostamenti delle comunità umane che popolavano le Alpi di allora cacciando questi animali.
Quattro i siti trentini indagati, tra i 1.000 e i 1.200 metri di quota – Riparo Dalmeri e Grotta d’Ernesto (Grigno), Riparo Cogola (Folgaria) e Riparo Cornafessa (Ala) – e migliaia i reperti faunistici analizzati. Attraverso analisi biochimiche su 49 ossa è stato possibile definire il tipo di dieta sostenuta dagli animali durante la vita e gli ambienti che hanno frequentato evidenziando come le due specie si siano adattate di volta in volta alle trasformazioni ecologiche indotte dai cambiamenti climatici.
È di pochi giorni fa la notizia di come l’aumento attuale delle temperature stia influenzando il comportamento dello stambecco alpino, sempre più incline alle attività notturne e dunque più esposto alla predazione. Ma come influivano le variazioni climatiche sulle abitudini di cervi e stambecchi del Trentino in epoca preistorica? Cosa mangiavano e come si spostavano questi animali per far fronte alle grandi trasformazioni ambientali del passato?
Lo studio internazionale fornisce nuove informazioni sulla dieta e la mobilità di stambecchi e cervi del passato, in rapporto ai cambiamenti climatici che caratterizzarono il passaggio tra la fine del Pleistocene e l’inizio dell’Olocene, tra circa 13.000 e 9.000 anni fa.
“In questa fase della Preistoria – racconta Rossella Duches, ricercatrice del MUSE e, assieme a Marco Peresani di UniFe, coordinatrice dello studio – le comunità animali e quelle umane si trovarono ad affrontare forti oscillazioni climatiche che influirono sull’ecosistema di un territorio già in forte trasformazione a seguito del ritiro dei ghiacciai e del graduale assestamento dei versanti e delle vallate alpine alla fine dell’ultima glaciazione. Ad oggi abbiamo molte informazioni su come evolvette il paesaggio alpino sollecitato da tali cambiamenti mentre la risposta adattativa di animali e comunità umane ha ancora molti aspetti da chiarire soprattutto per quanto riguarda la media quota montana".
"I dati raccolti sono utili per ricostruire l’ecologia di queste specie ma oltremodo importanti quando si tratta di animali come lo stambecco e il cervo, da sempre prede privilegiate dai nostri antenati preistorici: studiare l’evoluzione del comportamento animale in risposta ai cambiamenti climatici ci aiuta infatti a capire come le comunità umane si sono dovute adattare a loro volta, modificando le modalità di occupazione del territorio e le strategie di sfruttamento delle risorse”.
I siti indagati e i reperti studiati
Lo studio ha preso in considerazione i materiali faunistici di quattro siti trentini localizzati tra i 1.000 e i 1.200 metri di quota, che hanno restituito frequentazioni umane datate all’orizzonte cronologico preso in esame: Riparo Dalmeri e Grotta d’Ernesto in Valsugana (Comune di Grigno), Riparo Cogola a Carbonare di Folgaria e Riparo Cornafessa, sui Lessini alensi. Tra i siti archeologici più rilevanti del Trentino, si tratta di ripari sotto roccia o grotte che sono stati frequentati come accampamenti stagionali di caccia da gruppi di cacciatori-raccoglitori tra la fine del Paleolitico e l’inizio del Mesolitico.
Stambecco e cervo rappresentano gli animali più predati. Tra le migliaia di resti faunistici rinvenuti in questi siti, sono state selezionate 49 ossa appartenenti a queste due specie che recassero le tracce certe di uno sfruttamento antropico a fini alimentari. I campioni sono stati poi analizzati in laboratorio: le analisi, di natura biochimica, riguardano la misura delle concentrazioni relative di particolari elementi chimici all’interno del collagene, la sostanza organica dell’osso, che costituiscono degli indicatori affidabili del tipo di dieta sostenuta dagli animali durante la vita e degli ambienti che hanno frequentato.
“Gli isotopi stabili di carbonio e azoto che ritroviamo nel collagene – precisa Giovanni Manzella, studente dell’Università di Ferrara e autore dello studio – vengono influenzati dalle piante di cui si sono nutriti questi animali; la vegetazione, a sua volta, oltre che dal substrato, è influenzata da variazioni di temperatura e di precipitazioni indotte dalle fluttuazioni climatiche. Studiando quindi come questi valori si trasformino nel tempo, possiamo capire come siano cambiate le nicchie ecologiche e gli habitat delle diverse specie animali nella Preistoria”.
I risultati dello studio I risultati mostrano come stambecco e cervo modificarono la propria nicchia ecologica per adattarsi alle modificazioni climatiche e ambientali, mantenendo quasi sempre una separazione tra i rispettivi areali. Il cervo, infatti, è una specie ad alimentazione mista e opportunistica; vive in ambienti diversi che variano dalla prateria aperta alla foresta temperata. Lo stambecco, invece, è un ruminante che troviamo nelle valli interne alpine con un clima continentale e sub-mediterraneo.
Alla luce di ciò, è particolarmente interessante notare come, nelle fasi caratterizzate da un raffreddamento climatico e una contrazione della distribuzione vegetazionale, i dati relativi al cervo mettano in evidenza un adattamento a queste nuove condizioni e un ampliamento anomalo del proprio areale che risulta in parte sovrapposto a quello dello stambecco. I gruppi di cacciatori che frequentarono le medie quote montane durante questo periodo mostrano a loro volta di aver ampliato il proprio bacino di approvvigionamento per far fronte alla conseguente rarefazione delle risorse.
Con l’affermarsi verso 9.000 anni fa delle condizioni climatiche postglaciali, simili a quelle attuali, le specie tornarono a occupare areali separati inducendo quindi i gruppi umani mesolitici a modificare nuovamente il proprio comportamento.