Tornano i Foo Fighters Domani esce «Concrete and Gold»
Le definizioni usate dai diretti interessati sono molto impegnative: «Ho voluto che questo disco avesse più di qualunque altro il più grande suono Foo Fighters: che fosse un gigantesco album rock ma con il senso della melodia e dell’arrangiamento di Greg Kurstin. La versione dei Motorhead di Sgt. Pepper o qualcosa del genere, per intenderci» dice Dave Grohl. Taylor Hawkins aggiunge: «è il nostro disco più psichedelico e anche il più strano».
Domani sarà pubblicato «Concrete and Gold», il nuovo album dei Foo Fighters, ormai in lizza per il titolo di «più grande rock band americana», mentre Grohl si è conquistato, con la sua coinvolgente empatia, un ruolo di figura di riferimento per le nuove generazioni (e non solo visto che l’anno prossimo compirà 50 anni).
Nella definizione del sound complessivo di «Concrete and Gold» ha evidentemente giocato un ruolo chiave Greg Kurstin, il produttore (ma fa parte della band «The Bird and The Bee») di Sia, Pink, Lily Allen che ha scritto, prodotto e suonato «Hello» di Adele e che, allievo di Jacki Byard, leggendario virtuoso e collaboratore di Charles Mingus, ha cominciato la sua carriera come pianista jazz ad altissimi livelli.
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Sono chiaramente frutto delle sue idee l’attenzione per una costruzione orchestrale, le trame più complesse dei cori, il gioco di contrasti tra incursioni melodiche ed esplosioni chitarristiche. Per certi aspetti definirlo «la versione dei Motorhead di Sgt. Pepper» è meno spericolato di quanto possa apparire: perchè in più brani si avvertono chiaramente echi beatlesiani. A cominciare dal fatto che nella conclusiva «Sunday Rain» la batteria la suona Paul McCartney, amico intimo di Grohl (proprio con Sir Paul, in studio, Grohl è tornato a suonare con Krist Novoselic), ma le tracce dei Fab Four si avvertono nell’iniziale «T-Shirt», «Dirty Waters» e nell’acustica, quasi swing, «Happy Ever After», in cui, nella struttura armonica, si sentono citazioni esplicite.
Tra l’altro, come ha raccontato lo stesso Grohl, proprio «T-Shirt» è stata scritta dopo l’insediamento di Donald Trump: «Ho visto la famigerata conferenza stampa nella East Room, quella che si è trasformata in uno scontro di urla, quella del match di Wrestling. Tutta quella sporca ambizione per il potere e il controllo mi ha mandato fuori di testa. Pensavo: o mio Dio, è questo che siamo diventati».
«La Dee Da» invece descrive i sentimenti del Dave Grohl ancora adolescente in Virginia, un punk solitario e alienato alle prese con l’atmosfera repressiva dei sobborghi della Virginia degli anni ‘80.
È probabilmente questo il segreto del successo del leader dei Foo Fighters: non aver mai dimenticato da dove viene e non aver mai smesso di essere un fan. Quanto alla pischedelia e alla «stranezza» di cui parla Taylor Hawkins non ce n’è grande tracce, se non qualche accenno in «Arrow».
Ammesso che di stranezza si possa parlare, uno degli elementi più ricorrenti è il contrasto tra situazioni acustiche, ai limiti del pop, e la violenza delle chitarre e dei riff che in «Make It Right» si avvicinano al suono Aerosmith. L’unico momento estremo è «Run», il primo singolo estratto dall’album, davvero durissimo. Ma il senso generale è di un lavoro che aspira a nuove aperture (in questo senso si può leggere la partecipazione di Justin Timberlake e quella di Shawn Stockman dei Boyz II Men, incontrato in un parcheggio, che ha sovrainciso 30 parti corali in «Concrete and Gold»). Sicuramente il momento più strano e sorprendente di tutto l’album è la coda finale di «Sunday Rain», un assolo di pianoforte jazz tutt’altro che banale, un chiaro omaggio agli inizi della carriera di Greg Kurstin.
Paolo Biamonte