Federico Buffa tra sport e poesia con «Il rigore che non c'era»
Non bisogna farsi trarre in inganno da un titolo come «Il rigore che non c’era», spiega Federico Buffa, raccontando lo spettacolo in scena il 15 novembre prossimo all’Auditorium. «Il rigore che non c’era» è infatti un racconto che parte da storie sportive per diventare un affresco insieme storico, poetico e anche musicale. Buffa, considerato da molti come il più grande storyteller italiano, riprende la sua avventura teatrale con un testo particolare in continua trasformazione sera dopo sera.
Come è nato il «Il rigore che non c’era»?
«Preciso subito che l’idea non è mia, bensì del regista Marco Caronna che l’ha scritto ed è in scena con me. L’obiettivo era quella di raccontare una storia di realtà controfattuale nel segno delle cosiddette sliding doors, ovvero di cosa darebbe successo se, e lo spettacolo si muove in queste varie dimensioni narrative».
Ma quanto c’entra il pallone?
«Il rigore che non c’era è in qualche modo anche un titolo fuorviante perché il calcio in realtà c’è solo nei primi venti minuti. L’ispirazione viene da una storia argentina realmente accaduta e raccontata nel libro “Il rigore più lungo del mondo” scritto da Osvaldo Soriano. Lo spettacolo è attraversato da quel clima di indeterminatezza tipico del mondo sudamericano e che accompagna la pièce fino alla fine».
Nel racconto c’è anche Sendero Luminoso, l’organizzazione guerrigliera peruviana d’ispirazione maoista.
«Nel gioco della narrazione il regista continua a darmi una serie di stimoli riguardanti la storia del Sudamerica: si finisce in Perù e io racconto sia la conquista di queste terre da parte degli spagnoli nel 1532 sia la storia dei rivoluzionari che diedero vita a Sendero Luminoso negli anni ‘80 e ‘90».
Che campioni di calcio si evocano?
«Su tutti farei i nomi del fuoriclasse brasiliano Garrincha e del giocatore che il Manchester United voleva prendere al posto di George Best: l’argentino Houseman. Gli inglesi lo videro giocare contro l’Italia nei Mondiale del 1974 in quella che fu una partita clamorosa ma lui voleva continuare a vivere nel suo quartiere argentino e quindi rifiutò un’offerta milionaria».
Quale importanza ha la musica in questo spettacolo?
«Ha una parte dominante, perché non c’è nessun momento che non sia accompagnato da note o canzoni. Il pianista Alessandro Nidi indirizza l’accompagnamento musicale insieme alla cantante Jvonne Giò che interpreta i brani nei vari momenti della storia, passando dal portoghese, per Elis Regina, all’inglese, per Billie Holliday, fino all’italiano per alcuni brani di Paolo Conte».
Qual è, per lei, il momento più epico in scena?
«Mi emoziona e credo colpisca anche la platea quando parlo di Nelson Mandela raccontando del Mondiale di rugby del 1995 vinto dal Sudafrica. In quella occasione molti dei suoi collaboratori gli chiesero di “distruggere” gli Springboks, così è definita la loro nazionale, simbolo del Sudafrica bianca e dell’apartheid. Lui rifiutò dicendo che gli Springboks erano una parte importante della storia della nazione. Ora che, proprio pochi giorni fa, il Sudafrica ha vinto i mondiali con un capitano di colore nato in una baraccopoli, si può capire quanto lungimirante fu la scelta di Mandela».