Una rivista chiamata Manaròt, e quella splendida letteratura atesina sommersa (mochenette calde e furti alle Poste compresi)
E’ uscito il secondo numero della rivista culturale dedicata a giovani autori della regione o che hanno vissuto qui: ci hanno pensato due milanesi, e li dobbiamo ringraziare
TRENTO. Cantava Caparezza che “il secondo album è sempre il più difficile”. Per traslato, il secondo numero di una rivista letteraria rischiava di essere la prova del nove. Invece l'uscita del secondo pregiato fascicolo di Manaròt, è solo pieno di conferme.
Riassunto della puntata precedente: un gruppo di giovani intellettuali che hanno avuto a che fare con Trento (chi ci ha vissuto, chi ci ha studiato, chi ci è nato e poi andato via) decide di mettere in piedi una rivista letteraria “atesina”, cioè con autori che hanno a che fare con Trento e Bolzano (perché ci sono nati, ci hanno vissuto o ci hanno studiato).
Sul coraggio leonino e un po' incosciente di fare una rivista “atesina” in una Regione Trentino Alto-Adige che di fatto non esiste più (e forse è esistita solo fino al 1918), abbiamo già scritto. Ora però viene il bello: il secondo numero è forse stilisticamente più free, e quindi meno ingessato, e quindi a nostro modesto avviso, ancora più atesino.
Su questo hanno ragionato – in una presentazione pubblica alla ottima libreria Due Punti in San Martino – i due demiurghi dell'intrapresa, ovvero Nicolò Tabarelli e Davide Gritti. Scherzando, ma non troppo, perché nell'ironia sta sempre una grandissima parte di verità. Tipo: quando dichiarano che è una rivista atesina, giustamente sono consapevoli che a Trento dire atesina significa parlare della Ronda notturna, o della vecchia società dei trasporti. Così come sanno benissimo che parlare dell'esistenza o meno di una Atesia vuol dire far risuonare anche il brand Athesia.
Nicolò e Davide tirano dritto: davanti al dilemma se fare un numero 2 o meno, dichiarano le tesi fondanti del tutto, ovvero “convincere gli autori, spiegando loro che c'erano dei rischi: magari, o lo pubblichiamo noi o non resterà niente di quello che hanno scritto. E noi cerchiamo un confronto non con il territorio, ma con le persone”.
Cacciatori di teste, o meglio cacciatori di talenti, Tabarelli & Gritti hanno fatto un buon bottino anche stavolta. Se il primo numero aveva come titolo e tema “Nachlass”, il secondo si intitola “Alterità”.
“Alterità – hanno spiegato – è una riflessione proprio sull'Atesina (o Atesia): che cosa significa? Ci distingue dagli altri? Che cosa ci fa distinguere?”.
Alla (legittima) obiezione che loro vengono da Milano a esplorare la “specificità autonomista”, loro replicano con la frase giusta: “Non vogliamo essere certo l'entità di colonizzazione, ma magari quella di fermentazione”. E quindi, il lievito che fa crescere la pasta madre, svelandoci con Manaròt quello che non avevamo visto: un vasto mondo di scrittori atesini che navigano a pelo d'acqua e nella notte, e dei quali nessuno si occupa.
I cosiddetti intellettuali atesini sono troppo impegnati a scrivere lettere sul Simonino, o a farsi prendere a pesci in faccia dai presidenti di museo senza fiatare. E d'altra parte, le politiche culturali degli enti pubblici non sono più di moda, e vengono delegate a star del firmamento televisivo nazionale. Che cosa hanno fatto gli Enti Locali, che riversano milioni di “ristori” su ogni categoria, a cominciare dalle pecore, per gli artisti e gli scrittori di casa? Datevi una risposta.
Parentesi: ho scritto Manaròt con l'accento, come fanno i curatori nella rivista. E' una vera necessità, perché – ci hanno svelato – quando presentano la rivista a Milano o in giro per l'Italia, il pubblico lo pronuncia alla francese, “Manarò”. Essendo noto solo ai trentini veraci il significato della parola. Ma poteva andare peggio: Tabarelli e Gritti hanno svelato che la rivista poteva chiamarsi pure “Fasòi”. Poteva piovere.
Che cosa c'è in questo secondo numero? Tanta roba, e roba buona. Non ripetiamo quello che si è già detto per il primo numero (ad esempio che la grafica è una figata, proprio). Ma registriamo che “Alterità” si apre con un gioiello splendente: il racconto “Servoscala” di Riccardo Micheloni. Un brano “porno trap” in un patois mocheno-valsuganotto che meriterebbe di lievitare in romanzo.
Sì perché Micheloni ci dà un assaggio di un grande affresco che va dal carabiniere meridionale rimasto a vivere in una valle ostile anche dopo il servizio, alla barista procace di facili costumi (collocata di stanza a Borgo, ma è fiction), passando per il bel tenebroso centravanti della Fersina che si scopa tutte quelle che può ma è innamorato della compagnetta delle Medie che anni prima non glie l'ha data, fino al cameo della “mochenetta calda”, che non è una Bialetti, ma una vogliosa discendente del maso.
Micheloni stesso ha parlato del suo modo di indagare la realtà, partendo dall'assunto che ogni vita di giovane di provincia è una vita infelice, perché «la provincia è il tempio della noia». E quindi lui punta il visore in una terra che sta fra la Vigolana e il Rujoch, passando per la Valsugana e dintorni. «A livello di zoom, ogni zona è iper-particolare. A livello più ampio, tutta la provincia è uguale».
Letto il racconto, ci si chiede se esista davvero “La Tipa Progressista Da Trento”, se esista “la Slimer”, chi sia il Gadler. Ma Micheloni stoppa subito le investigazioni: «C'è ironia, i personaggi sono personaggi, e le storie sono storie che ho sentito. Personaggi dialettali, perché a me piace il carnevalesco, il Thomas Pinchon, ma narrato con un uso parco del dialetto».
Non appena ci siamo rassegnati al fatto che non potremo mai incontrare di persona “la mochenetta calda” (anche se sappiamo che esiste, poiché se ne narra), la rivista Manaròt ci fa subito rientrare in area voli intercontinentali. Abram Tomasi (Roveretano), scrive magistralmente la storia di un amore segreto, taciuto, contrastato, che rivive nella memoria e nella confessione solo al momento del funerale di uno dei due protagonisti. E non importano il sesso e l’anagrafe: l’amore è uno, con buona pace dei detrattori del ddl Zan.
Se vogliamo, questo è il contraltare di Micheloni: là lo stile carnevalesco, qui la delicata trina dell'elegia esistenziale, eppure tutti e due scrivono dell'esistere, e della fatica di farlo nella provincia “atesina”. Sia benedetto il lievito di Manaròt!
“Die Frischlinge” di Nicolò Tabarelli porta all'estremo limite tutto questo, con un racconto horror. No, non è horror nel senso di Stephen King, ma come altro si potrebbe definire la vicenda di un bambino esiliato in Carinzia a vivere da Ausslander in una famiglia di cacciatori in una linda casetta nel bosco, sopportando ogni giorno il bullismo dei fratelli acquisiti e dell'intero corpo scolastico austriaco? Quando poi la narrazione vira verso fucili, pallettoni e battuta al cervo nei boschi ammantati di nebbie, non siamo lontano dai territori di Shining, eppure la scrittura resta lieve, piacevole come l'amaro della grappa alla genziana. Che è amaro. Ma alla fine è piacevole.
Confesso che ho un debole per “Universale postale” di Davide Gritti, ma di questo racconto non parlerò, a causa di un conflitto di interessi. Sono stato un dipendente delle Poste e Telegrafi (una vita fa) e quindi non mi posso pronunciare sul meccanismo a orologeria ben innescato dall'autore. Fra corrispondenza smistata, pacchi valore, meccanizzazione postale, Alcide Degasperi e i privilegi dei postelegrafonici trentini, sappiate che c'è di mezzo il furto del secolo, dello strabiliante valore di svariati milioni di euro. No spoiler, please read.
Daria De Pascale si affida al passato remoto. Forse la cosa meno “atesina” di tutte quelle che potreste immaginare. E ancora una volta, non per caso, è un lungo racconto intimista che ha che fare con “il tempio della noia” (cit. Micheloni). Stavolta con un retrogusto di scrittura femminile (se esiste la letteratura di genere, se ha un senso distinguerla; per me, sì) in ogni sua sfumatura e ogni sofferenza esistenziale.
Alex Piovan con “Et Alii” e Lucia Gambuzzi con “Motivi culturali” chiudono la serie. Se Piovan mi ha convinto meno (credo che debba, come autore, trovare ancora la sua “voce”), Gambuzzi mi ha chiarito il senso di tutta l'operazione Manaròt.
Mezzo secolo fa io e i miei coetanei andavamo a studiare “fuori” perché a Trento c'era solo Sociologia. Andavamo a Bologna, a Padova, a Milano... e ne tornavamo cambiati, eppure in qualkche modo più “trentini”. Oggi Trento ha 16 mila studenti universitari, che vengono da tutta Italia ed Europa. E Lucia Gambuzzi – per anni protagonista degli eventi culturali della città – ci racconta un po' di questo con un plot sentimentale. La storia di un amore e di una separazione. Ma la verità è nei dettagli: “Altro è il fascino dei sentieri sconosciuti, che non abbiamo voluto prendere”, declinato in prosecco mignon da bere sulle panchine fredde, o vino rosso nelle tazze della colazione ad una festa in appartamento. Da piangere. Da ricordare. Come la nostra gioventù da fuori sede, una vita fa.
Infine Aura Tomio. Come nel primo numero, “Manaròt” dedica la parte centrale alla fotografia e lo fa con le splendide immagini di questa giovanissima fotografa. Alla presentazione, ha detto poche impacciate parole, d'altronde è una fotografa, e le immagini parlano per lei. E lo dice proclamando “non sono una fotografa”. Ovviamente è vero: non è una fotografa, è una ottima fotografa.
Immagini di Trentino. “La gente, quando dici Trentino, si aspetta mucche e mele, e mucche e mele qua non ci sono”. Ci sono invece la macchina della Polizia Locale che passa in una Trento notturna spettrale, livida e vuota (come è, di fatto, ogni notte); ci sono giovani in riva a un laghetto; ci sono le mani di una defunta viste attraverso un tulle, nella bara; ci sono le sedie di plastica bianche dell'Obi su un prato, per un picnic estivo. C’è il “tempio ella noia” e lo scorrere della vita.
Chiuso il numero 2 di Manaròt, ci assale l'inevitabile domanda: ci sarà il numero 3? E quali meraviglie conterrà?
La rivista costa 15 euro, la trovate alla libreria Due Punti di via San Martino a Trento. Non riceve contributi dalla provincia Autonoma di Trento o dalla Regione, e questa è la sua unica pecca: come puoi essere rivista “atesina” senza partecipare alla magnadòra? Che, alla fine, poteva essere un altro nome papabile per questa rivista. E invece...