Contadini di confine, un documentario indaga i rapporti fra agricoltori trentini e sudtirolesi, i «Grenzbauern»
Oggi (e lunedì) al Filmfestival il lavoro di Michele Trentini in alta Val di Non e in val di Fiemme: collaborazione, scambi, confronti. Ma loro parlano benissimo l’italiano, noi molto meno il tedesco
TRENTO. Viene proposto oggi alle ore 15 (e lunedì 29 alle 19) al cinema Modena, per il Filmfestival, "Contadini di confine" in anteprima la nuova pellicola del regista Michele Trentini, prodotta dal Museo etnografico trentino di San Michele con il supporto del Consorzio caseifici sociali trentini. Un film documentario per la fotografia e montaggio di Trentini che ne ha curato interviste e ricerca insieme a Marco Romano.
Michele Trentini quali le radici di "Contadini di confine / Grenzbauern"?
«Qualche anno fa in occasione della presentazione del mio documentario "Latte nostro" a Rumo io e l'etnografo Marco Romano siamo venuti a sapere che quasi la metà del latte di alcuni caseifici sociali dell'Alta Val di Non e della Val di Fiemme viene consegnato da allevatori dei vicini paesi della provincia di Bolzano e unito a quello dei soci trentini, per produrre in primo luogo il Trentingrana. Questi contadini, uomini e donne, sono soci dei caseifici da decenni e portano avanti una forma di collaborazione poco nota, fidandosi di competenze casearie che in Trentino affondano le radici nella diffusione dei piccoli caseifici turnari di paese. Conoscerne i protagonisti ci è sembrato importante in un tempo in cui la pacifica convivenza tra popoli e gruppi etnici è in forte crisi, anche in Europa. Il Mets ha sostenuto con convinzione il progetto e grazie alla compartecipazione del Consorzio dei caseifici sociali trentini ci ha dato modo di realizzare le interviste e il documentario, nella più totale autonomia».
Quali i temi affrontati?
«Il lavoro è diviso in due parti, nella prima si racconta della dedizione necessaria a sostenere un maso o un'azienda zootecnica a conduzione familiare, così come del rapporto che gli allevatori hanno con i loro animali, che conoscono per nome. Grazie alla presenza di una radicata cultura della fienagione, dell'allevamento e dell'alpeggio i "contadini di confine" contribuiscono a mantenere vivo e in equilibrio un paesaggio salubre e diversificato, che si differenzia da quelli della monocoltura intensiva o dell'abbandono che troviamo in molte altre aree montane. Tendiamo a dare per scontata l'esistenza di questo tipo di paesaggio, ma durante la ricerca sono emerse anche problematicità, come i timori connessi all'espandersi della frutticoltura, che secondo alcuni rischierebbe di "soffocare" la zootecnia».
E la seconda?
«Si occupa più segnatamente di questioni collegate alla presenza di un confine amministrativo e culturale. Sieglinde Mairhofer, di Proves/Proveis, ha utilizzato una felice espressione affermando che per lei vivere in prossimità del confine "è un dono". Particolarmente significative sono le parole dell'allevatore di Rumo Renzo Marchesi, secondo cui "se ti frequenti non costruisci alcun muro". L'abitudine a condividere il latte, le decisioni e a frequentarsi favorisce la percezione del confine come cerniera. Per gli allevatori trentini tener conto del vicino approccio sudtirolese alla zootecnia, basato sulla presenza di piccole aziende che non puntano alla mera massimizzazione del profitto, significa evitare di appiattirsi sul modello padano delle mega stalle. Allo stesso modo alcuni soci sudtirolesi hanno preso spunto da alcune virtuose realtà trentine introducendo la stabulazione libera, ammodernando tecnologicamente le stalle e riflettendo sul fatto che entro certi limiti l'ampliamento dell'azienda possa portare anche vantaggi».
Che realtà avete trovato da un punto di vista linguistico?
«Tutti i contadini sudtirolesi incontrati padroneggiano molto bene l'italiano e talvolta anche con molte espressioni nonese o fiemmazze. Per loro è normale cambiare registro linguistico a seconda dei contesti. Un po' di più potrebbero fare i trentini per valorizzare la prossimità con l'area germanofona, perché una lingua è una chiave di accesso a un mondo, che noi abbiamo anche all'interno della stessa Regione. Ci hanno raccontato che negli ultimi anni ci sono famiglie che portano i figli a scuola nei vicini paesi sudtirolesi per imparare il tedesco. Questo fa ben sperare».
Protagonisti anche i caseifici e i casari.
«Tutti gli allevatori che abbiamo intervistato hanno dichiarato di sentirsi parte attiva dei caseifici, di apprezzarne il modello, la qualità dei prodotti e di esserne orgogliosi. Parliamo dei caseifici sociali di Rumo, Castelfondo, Fondo e Val di Fiemme. Il fatto di tener conto della peculiarità del latte che i diversi soci conferiscono, valorizzandone le caratteristiche anche attraverso la differenziazione dei prodotti, è ciò che abbiamo visto fare da casari di straordinaria competenza e lungimiranza. Certo i contadini vorrebbero che il loro latte venisse pagato di più, ma di recente ci è stato detto che le cose sono migliorate».
Il film documentario è prodotto dal Museo Etnografico di San Michele, qual è l'approccio utilizzato?
«Il lavoro si basa principalmente su alcuni dei metodi dell'etnografia, le interviste narrative e l'osservazione filmica. Più che di interviste si è trattato di incontri in cui le persone hanno avuto il tempo di riflettere davanti all'obiettivo, senza fretta, in modo da elaborare i concetti in modo non preconfezionato. Lo hanno fatto comodamente, seduti all'interno del paesaggio cui danno vita. L'osservazione ha riguardato invece i contesti e le attività lavorative, come la cura dei pascoli, la fienagione, l'alpeggio e la caseificazione. Marco ha prodotto una gran mole di materiale fotografico ed entrambi abbiamo elaborato delle generose note di campo, che il Mets intende valorizzare attraverso la pubblicazione di un volume. Ciò permetterà di approfondire diversi aspetti che per forza di cose non sono rientrati nel documentario».