Giuliana De Sio: "Mettiamo in scena una famiglia, una storia di resilienza e resistenza"
Intervista con l'attrice ptrotagonisa in questi giorni a Trento, con Valerio Binasco, nel dramma, toccante e divertente, "Cose che so essere vere" di Andrew Bovell. Lo spettacolo programmato al "Sociale" fino a domenica
TRENTO – Un dramma insieme toccante, divertente e coraggioso che ruota intorno alla storia di una famiglia e di un matrimonio. È quello raccontato in “Cose che so essere vere (Things I Know to Be True)” di Andrew Bovell con Giuliana De Sio e Valerio Binasco in scena al teatro Sociale di Trento, oggi e venerdì alle 20.30, sabato alle 18 e domenica alle 16 per la stagione proposta dal centro Santa Chiara.
Insieme a loro, nel primo allestimento italiano del potente testo scritto nel 2016 da Bovell, Fabrizio Costella, Giovanni Drago, Giordana Faggiano e Stefania Medri nella produzione del Teatro Stabile di Torino insieme allo Stabile di Bolzano e del Veneto. Ne abbiamo parlato con la protagonista Giuliana De Sio che da poco ha ricevuto il Premio della critica dell’Associazione nazionale Critici del teatro.
Giuliana De Sio, come è stata coinvolta nello spettacolo in “Cose che so essere vere”?
“Sono stata contattata dallo Stabile di Torino perché la scorsa stagione abbiamo già avuto una bella esperienza reciproca con Agosto a Osage County di Filippo Dini dove avevo un ruolo meraviglioso anche se ho dovuto lasciarlo prima del tempo per impegni che avevo già preso. Quest’anno , in apertura di stagione, mi hanno chiamato e sono rimasta affascinata dal personaggio che mi hanno proposto anche se è quasi agli antipodi di quello precedente”.
Come descriverebbe questa piecè ambientata in una villetta nella periferia meridionale di Adelaide in Australia?
“In realtà l’Australia c’entra poco, è citata per l’indirizzo della villetta per i nomi stranieri dei personaggi ma fondamentalmente è la storia di una famiglia che può essere ovunque, una storia di resilienza e di resistenza. Si rappresenta tutto quello che può succedere in una famiglia che porta i figli a voler scappare, sono presi da una forza centrifuga ma allo stesso tempo non riescono a staccarsi. I genitori apparentemente sono una coppia normale che ha coltivato il sogno di una famiglia perfetta.
Una famiglia che sia accoglienza, amore, consolazione da tutti i mali, crescita, educazione ma come spesso accade non è così, non ce la fanno. Lei decisionista, ferma, lavoratrice, lui femminile, piagnucolone, tenero, sono una coppia anomala dove i ruoli sono quasi con ruoli invertiti, i 4 figli sono delusioni perché portano dei problemi, scioccano i genitori perché vanno contro la loro idea di perfezione, volevano una specie di eden ma il loro progetto di perfezione e felicità si basava su bugie, su cose non dette, su verità nascoste e quindi alla fine tutti i nodi vengono al pettine”.
Qual è il suo ruolo in questa commedia malinconica?
“Il mio personaggio è una grande madre. Questo aspetto mi ha fatto inizialmente quasi rabbrividire non avendo mai provato l’esperienza del materno nella mia vita. Lei invece è quasi santificata dal testo per un motivo che non voglio svelare, fa un sacco di errori, è un’eroina difettosa ma è quella di cui tutti alla fine sentono il bisogno. Molte persone dopo lo spettacolo corrono a perdonare la madre perché questo spettacolo ti mette di fronte a tutte quelle cose che hai dato per scontato nella tua famiglia, a cui non hai mai dato il giusto peso, invece questo spettacolo forse ti fa capire che queste cose per quanto sbagliate, per quanto sgradevoli erano sempre una manifestazione d’amore e quindi preziosa”.
E la figura del marito come viene caratterizzata?
“Il marito resiste ma in un territorio in cui si è già arreso, è un sessantenne invecchiato male, tenerissimo, che piange spesso, pieno di sentimenti e vuole ancora coccolare i proprio figli anche se trentenni, è un personaggio riuscitissimo al fianco di una donna che a tratti sembra una erinni scatenata a tratti una donna fragilissima che piange per dei dolori che lei stessa ha messo sotto la sabbia”.
Come ha impostato la regia Valerio Binasco che è anche sul palco insieme a lei?
“E’ uno spettacolo fragilissimo. Quando ho letto il copione non mi ha entusiasmato perché va tutto interpretato, è una storia molto sentimentale. La bravura di Valerio è stata trovare un equilibrio tra la retorica di quello che potrebbe essere il sentimentalismo e la durezza della realtà. Siamo tutti attori abbastanza asciutti, non c’è retorica su questo palcoscenico, non c’è una tesi che viene dimostrata, i personaggi fanno cose belle e brutte, sono amabili e odiosi, sbagliano e fanno gesti eroici. In questo trovo che questa drammaturgia sia molto moderna, non c’è un’eroina tutta d’un pezzo per cui dobbiamo parteggiare ma ci lascia e ci riprende ma sta sempre in piedi, progetta di continuo nonostante la vita le dia delle botte terribili. Questa coppia resta sempre in piedi, nonostante tutto quello che succede, si dicono tra di loro, alla fine c’è un sogno in fondo. Poi la storia ti porta a sbattere contro una realtà ineluttabile ma lì ogni spettatore trarrà le sue conclusioni, elaborerà il proprio lutto”.
Da pochi giorni ha ricevuto il premio della critica dell’Associazione nazionale Critici del teatro.
“Una bellissima soddisfazione, sono felicissima. Già sette mesi fa ho ricevuto il premio Eleonora Duse per “Agosto a Osage County” con una cerimonia al Piccolo dedicata a me. E’ un anno ricco di gratificazioni non solo per i premi ma anche di lavorare a un livello alto con i due registi (Dini e Binasco) che per me sono i numeri uno del teatro italiano, sono molto moderni, sono in grado di lavorare nei classici e renderli moderni o di scovare testi da tutte le parti del mondo che devono essere conosciuti”.
Come sta il teatro italiano?
“Vedo i teatri sempre pieni ma lo zoccolo duro è costituito dagli anziani. E’ questo che manca al teatro: l’ascolto di un pubblico giovane. I giovani, secondo me, vengono a teatro solo se ci sono belle cose per cui si emozionano e li portino a pensare che il teatro non è quel luogo polveroso, triste e punitivo che loro si immaginano e come è stato effettivamente per troppo tempo. Poi il pubblico è fatto all’80% di donne. Mi chiedo: “Ma gli uomini cos’hanno? Perché non vi lasciate andare alla narrazione di una storia che non sia, molto spesso, solo quella di undici persone che inseguono un pallone?”.