Festività / Intervista

«Natale ci ricorda di cercare il nostro cammino e di stare insieme»

Conversazione con Massimo Leone, direttore del Centro studi religiosi di Fbk e professore di filosofia della comunicazione all’Università di Torino. «Celebrarlo significa anche soffermarsi sul mistero del proprio inizio, che non è solo un punto nel tempo ma anche nello spazio. E questo spazio è fatto di territorio e di relazioni, dei paesaggi che ci hanno accolto e delle persone che ci hanno guidato»

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di Alberto Piccioni

TRENTO - Avere una direzione non significa avere un senso: il Natale ci ricorda di cercare la “stella” che guida il nostro cammino, ci sveglia dall'automatismo dei gesti e ci restituisce il senso del tempo. Ne parla Massimo Leone, direttore del Centro di studi religiosi di FBK, professore di filosofia della comunicazione all’Università di Torino. Da poco ha chiuso il convegno su “Il senso incantato”, dove vari esperti internazionali hanno discusso sul disincanto religioso e le nuovo forme di spiritualità

Il Natale contemporaneo sembra oscillare tra nostalgia per un passato idealizzato e proiezione verso un futuro incerto.

Abbiamo domandato a Leone se è possibile ritrovare un senso di presenza e di autenticità nel Natale contemporaneo, conciliando memoria e speranza.

“Nostalgia” è una parola ricorrente nella sensibilità odierna - risponde il professore - ma essa designava, in origine, una condizione relativa non al tempo bensì allo spazio; fu infatti coniata nel 1688 dal medico svizzero Johannes Hofer per indicare il comportamento di quei marinai che, impegnati in viaggi oltreoceano, soffrivano così tanto la lontananza da casa che cercavano di ritornarvi gettandosi in mare.

Oggi quando si dice “nostalgia” si pensa al tempo passato, e al dolce dolore di un ritorno impossibile, ma il Natale ci insegna che un senso di presenza piena si può attingere solo nella ciclicità rituale di un ritorno periodico ad un luogo, e questo luogo è quello della nascita, delle origini, dell’inizio della vita.

Celebrare il Natale significa anche soffermarsi sul mistero del proprio inizio, che non è solo un punto nel tempo ma anche nello spazio, e questo spazio è fatto di territorio e di relazioni, dei paesaggi che ci hanno accolto e delle persone che ci hanno guidato. Da questo punto di vista, il presepe è una straordinaria tradizione, una sorta di antica scena immersiva, per ritornare con la mente anche alla capanna del nostro approdo nel mondo.

Dal recente convegno di FBK sul senso incantato, quale messaggio o riflessione possiamo ricavare per interpretare questo Natale 2024?

Il convegno è stato un momento straordinario di condivisione fra tanti studiosi e studiose, ma soprattutto è stato un’occasione di dialogo con i cittadini e le cittadine di Trento, che ci hanno ascoltato e offerto spesso i commenti e le domande più stimolanti. Mi ha colpito soprattutto il fatto che vi fosse un’intensa partecipazione femminile, di studiose e di ascoltatrici, e che spesso la conversazione si sia soffermata su temi legati alla maternità, all’origine materna del senso.

Vi è stato un momento molto toccante in cui una studiosa della voce e della sua capacità incantatoria ci ha fatto ascoltare una registrazione dei suoni che si sentono nel ventre materno; si percepiva soprattutto il ritmo di due cuori che battevano simultaneamente, quello cadenzato della madre e quello galoppante della piccola creatura, frammisti a uno sciabordio di suoni più lontani e indistinti.

Mi piace trattenere questa immagine sonora per pensare al Natale come all’incontro di due cuori, uno immanente e uno trascendente, nello stesso ritmo. È un’esortazione a pensarci sempre come frutto di un battito comune fra finito e infinito.

Come esperto di semiotica: quali sono i "segni" più significativi del Natale contemporaneo, oltre quelli classici di un consumismo conclamato?

Molti sono disincantati rispetto alle abitudini del periodo natalizio, ai suoi automatismi di consumo, ai suoi sprechi, e in parte lo si può comprendere. Tuttavia non bisognerebbe forse confondere la causa e l’effetto.

Il Natale non è un sottoprodotto del consumo, al contrario: se questo esiste, e se il Natale viene colto come occasione commerciale planetaria, ciò avviene perché questa festa risveglia in gran parte dell’umanità un sentimento di alterazione del normale flusso del tempo.

Per chi crede è il momento dell’epifania della trascendenza sulla scena dell’umanità, ma anche per chi non crede, o ha smesso di farlo, è un periodo e un momento in cui milioni di piccole comunità si fermano per raccogliersi, interrompere il flusso del tempo, adottare segni antichi, scambiarsi doni. Tutti i segni del Natale, dunque, dai più remoti e religiosamente connotati, fino ai più recenti e commerciali, ci raccontano di un’umanità che, nonostante tutto, ha bisogno di stare insieme, di fermarsi per condividere il tempo.

Natale è festa della nascita. In un'epoca segnata dal disincanto e dalla perdita di fiducia nel futuro, è sensato cercare di riscoprire il valore della nascita e della vita come evento carico di senso e di possibilità?

Si suggerisce spesso che le società contemporanee abbiano rimosso il senso della morte, ed è forse vero. Tuttavia non altrettanto spesso si considera che esse hanno allontanato anche il senso della nascita, del mistero metafisico dell’iniziare a esistere.

Nella Fondazione Bruno Kessler si gode dell’opportunità eccezionale di poter dialogare non solo fra filosofi, teologi, e storici della religione, ma anche con grandi scienziati, e in particolare con fisici. I loro straordinari strumenti si spingono a immaginare la fine del tutto esplorando i giganteschi buchi neri che punteggiano l’universo, eppure nel loro racconto questi abissi della luce sono sempre legati all’insondabile mistero dell’inizio del tutto, alla deflagrazione cosmica che interruppe le tenebre.

Questo senso dell’intreccio fra ciò che finisce e ciò che inizia è insito nella teologia del Natale. In alcune sue suggestive iconografie, l’arte cristiana dissemina segni sibillini di ciò che accadrà al tenero bambino della culla, destinato alla  croce.

Eppure, la cristianità incoraggia a pensare che questo inizio già segnato dalla fine è anche una fine screziata d’inizio, una scena di salvezza.

Come può questo Natale diventare un momento di "conversione" del nostro sguardo sul mondo, un'occasione per aprirci a nuove prospettive o a un rinnovato senso di responsabilità?

L’immaginario della natività insiste molto su figure di raccoglimento: lo spazio raccolto di una stalla, il ricettacolo di una mangiatoia. Molta teologia, nell’antichità, si è spinta a decifrare questo dettaglio. Alla nascita, il bambino viene adagiato lì dove gli animali della stalla, tradizionalmente il bue e l’asino, trovano il proprio cibo.

È evidentemente una prefigurazione di quanto il corpo di Cristo diverrà nell’Eucaristia, ovvero sacramento rituale della comunità cristiana; forse però con la sensibilità odierna si può interpretare anche come un segno di vicinanza cosmica tra questa creatura e il suo creato, agli animali di cui condivide la “casa”, alla paglia che lo riceve nel mondo.

Mi fa molto piacere che, nella Fondazione Bruno Kessler, l’intelligenza artificiale venga oggi messa al servizio dell’agricoltura sostenibile, e in particolare di quella del Trentino. Anche il nostro Centro dedicherà il 2025 a riflettere sul “creato digitale”; la scena della natività ci racconta allora che questo afflato di rispetto verso il cosmo tutto e le altre creature ha radici antiche, che vanno riscoperte e apprezzate.

La società contemporanea è caratterizzata da una crescente frammentazione: c'è ancora margine per recuperare il valore della comunità e della condivisione, contrastando l'individualismo e l'isolamento?

Nel momento della nascita divina, una stella appare a guidare l’umanità verso il luogo dell’evento straordinario. È un’immagine che ha origini ancestrali, e che in forme diverse si ritrova in scenari per vari aspetti anche molto disparati.

Dante esce dal suo Inferno per rivedere le stelle, ma anche Kant ci trasmette l’idea di un cielo stellato consustanziale all’istinto morale degli esseri umani. A differenza delle stelle di Dante e del cielo stellato di Kant, tuttavia, il racconto del Natale insiste sul fatto che non di stella si tratti ma di cometa; di un astro che appare dal nulla e che nel nulla scompare; di una scintilla che viaggia nel tempo e nello spazio.

Vi sono moltissime interpretazioni di questo dettaglio, però una su tutte mi pare avvincente: la cometa è segno che richiede il nostro sguardo, che deve essere avvistata, seguita, obbedita nel suo messaggio di direzione. Ci insegna che non basta cogliere una nuova luce comune, ma bisogna avere la volontà di seguirla insieme. Mi sembra un insegnamento profondo per comunità smarrite che cercano un nuovo firmamento.

Certo che coltivare la speranza in un mondo segnato da guerre, crisi ambientali e disuguaglianze sociali risulta piuttosto difficile…  

Al di là dell’universo di simboli che circondano il Natale, esso è soprattutto una festa attorno ad un bambino che nasce. In questa fase della mia vita, ma anche in questa fase della società in cui vivo, mi sembra che non ci sia niente di più importante di questo. Un bambino che nasce è una luce che si accende nell’universo.

Dobbiamo fare di tutto per proteggere questa luce. Non c’è missione più urgente. Ripensare tutta la società attorno a questo, significa ritrovare il senso non soltanto del futuro, ma anche del potenziale.

Proteggere il mondo che sarà, dargli una possibilità di essere, spendersi per salvaguardare un pianeta che non sarà più il nostro: è questa la generosità che deve ispirare il Natale.

Al di là della virtualità e della comunicazione digitale, come riscoprire una dimensione autentica dell'incontro e del dialogo durante il Natale?

Le tecnologie digitali sono importantissime; nella nostra Fondazione, per esempio, se ne producono per migliorare la vita degli esseri umani. Io stesso quest’anno, con il mio gruppo, ho lavorato ad una app per aiutare gli anziani, specialmente quelli in difficoltà, a mantenere un contatto gioioso con la propria famiglia.

Il digitale può unirci; l’intelligenza artificiale può risolvere molti dei nostri problemi; e tuttavia le nostre “reti” non possono essere vuote. Anche gli ingegneri e gli informatici contemporanei sono chiamati a diventare “pescatori di uomini e di donne”, e non soltanto di algoritmi.

“Mettere al centro l’umano” significa lavorare per una tecnologia che ci fa scoprire il senso delle relazioni umane e lo esalta, ma non le sostituisce. Incontrare faccia a faccia i propri cari, i propri colleghi, i propri concittadini, ci rinnova nella convinzione che il digitale deve servire il sociale, non viceversa.

Possono le nuove tecnologie contribuire a una comprensione più profonda del Natale e dei suoi significati?

Spesso si lodano le nuove tecnologie quando hanno successo, e raggiungono il loro obiettivo. Ma non altrettanto spesso ci si sofferma sui fallimenti, sulle incertezze, anche sugli errori del cammino tecnologico. In questa fase storica l’umanità sta sognando un’intelligenza macchinica superiore, e per certi versi sta realizzando il proprio sogno. Le possibilità aperte dall’intelligenza artificiale sono straordinarie.

Eppure, proprio grazie a questo esercizio di simulazione, alcuni scienziati illuminati si stanno adesso rendendo conto di come la nostra intelligenza non sia solo pienezza, bensì anche vuoto. Non è solo capacità di ricordare tutto, ma anche disposizione all’oblio. Non è solo strumento di dominio della realtà ma anche specchio della vulnerabilità della nostra specie. Forse, siamo diventati così intelligenti non perché eravamo forti, ma perché eravamo vulnerabili.

Il Natale è la storia di una trascendenza che sceglie di nascere nell’umiltà. Mi sembra un messaggio centrale per chi oggi sviluppa nuove tecnologie, e specialmente quelle che simulano il linguaggio umano. Il logos, il verbo fattosi carne, ha scelto la debolezza del mondo, non il suo potere.

Le feste e il Natale in particolare è spesso vissuto come un momento di "sospensione" del tempo ordinario. Come interpretare questa "sospensione"?

Il disincanto più profondo nasce forse dal rendersi conto, spesso troppo tardi, che nella vita si ha una direzione, ma non un senso. Non sono la stessa cosa. Dirigersi da qualche parte e condurre un cammino sensato sono atti molto diversi. Momenti festivi collettivi, come quello del Natale, possono essere interpretati come logaritmo di gesti e riti compiuti meccanicamente, persino con svogliatezza.

L’ironia sul Natale e i suoi cliché del resto pervade i social networks. Eppure, quest’ironia dovrebbe essere rovesciata; molti di noi, e purtroppo spesso soprattutto le nuove generazioni, trovano in questi ambienti digitali una miriade di micro-direzioni senza senso. Spesso, la sensazione che si prova dopo aver esplorato tali meandri digitali è proprio quella di aver perso il proprio tempo, di sentirsi svuotati.

Le ritualità collettive ci suggeriscono invece che le nostre vite hanno bisogno di un senso, e che questo non può essere che condiviso con altri. La sospensione festiva può essere uno squarcio verso un nuovo sentire e un nuovo senso, lontano dai piccoli schermi nei quali schermiamo la nostra solitudine.

Concludendo: è  ancora possibile riscoprire la dimensione "incantata" del Natale, il suo potere di evocare meraviglia e di connetterci a un senso di trascendenza?

Si dice sovente, ed è quasi uno stereotipo, che per esperire l’incanto sia necessario “tornare bambini”; ma quale modo migliore di farlo che tornare con i bambini, ovvero coltivare comunità in cui l’infanzia ritrovi il suo luogo, la sua importanza e la sua serenità?

La costruzione di una società alienante è stata anche frutto di un’innaturale marginalizzazione delle fasi apparentemente meno “produttive” della vita, ovvero l’infanzia e la vecchiaia.

Molti dei nostri sforzi oggi, anche quelli tecnologici, devono invece andare nella direzione di ricucire questo strappo. I bambini e gli anziani devono essere fra di noi, con noi, a cominciare dalle festività natalizie.

A Trento, per esempio, il Natale trasforma una città già incantevole in un vero e proprio sogno fra le montagne.

Certo, non tutto è incanto del sacro, ma agli occhi attenti di un visitatore non si può non cogliervi il pulsare di una comunità che crede ancora nel piacere dello stare insieme, nelle proprie tradizioni, nel proprio bellissimo dialetto, fra generazioni diverse, nel paesaggio della propria terra, vero dono del cielo.

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