Crolla il prezzo del petrolio: 20 $ in meno e il Pil sale di mezzo punto
Capita sempre più spesso, nelle ultime settimane, di leggere nelle agenzie di stampa titoli di questo tipo: «Crolla il prezzo del greggio, borse in caduta». E in effetti i mercati non apprezzano il calo, continuo e vistoso, del prezzo del petrolio. Soprattutto perché ci sono economie che sull’export del petrolio si reggono. Basti pensare alla Russia.
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Poi ci sono i consumatori, che beneficiano del calo del prezzo quando vanno al distributore a fare il pieno. Ma non solo: «Per ogni 20 dollari di riduzione stabile, pari ad almeno un anno, del prezzo del petrolio, il Pil italiano cresce di mezzo punto». È il calcolo del presidente dell’Unione petrolifera, Alessandro Gilotti. Più in generale, il Fmi stima che un calo di 10 dollari nei prezzi del greggio valga 0,3 punti di Pil a livello globale.
Insomma, le borse possono anche non apprezzare, ma se il pieno costa meno e il Pil sale... Ma durerà?
Sempre secondo Gilotti, un rimbalzo dei prezzi del petrolio «sicuramente ci sarà, ma non lo vedremo troppo presto: a fine 2015 o anche nel 2016». Sulla decisione Opec di non ridurre la produzione, Gilotti sottolinea che il Cartello «non ha più la forza di fare il prezzo, ma può comunque condizionare il mercato agendo sulle quote». Vediamo qualche numero in proposito.
Nel 2014 gli Stati Uniti sono stati il primo produttore mondiale di greggio, con 11,7 milioni di barili al giorno. Gli Usa, con la forte accelerazione dovuta all’estrazione di shale oil, hanno superato la Russia (al secondo posto, stabile con 10,9 milioni di barili). L’Arabia Saudita si conferma terza con 9,5 milioni di barili. In generale, è salita ancora la quota dei Paesi non Opec (da 50,5 a 52,2 milioni di barili), mentre è stabile quella Opec.
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Nel 2014 la domanda di greggio mondiale, pari a 92,4 milioni di barili al giorno, ha rilevato la crescita più bassa degli ultimi 5 anni (+0,7%), per la riduzione della domanda da parte dei Paesi Ocse (-0,9% rispetto al +0,3% del 2013) e un rallentamento di quelli non Ocse (+2,4% rispetto al +3,5% del 2013). Proprio quest’anno, inoltre, i Paesi non Ocse hanno superato la fatidica soglia del 50% dei consumi petroliferi mondiali, guidati dai paesi asiatici seguiti dal Medio Oriente e dall’Africa.
Allo stesso tempo, con un’offerta cresciuta del 2%, il contributo dei Paesi Opec è rimasto sostanzialmente invariato, mentre è aumentato quello dei Paesi non Opec: gli Stati Uniti, in particolare, con quasi 12
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milioni
di barili sono diventati il primo produttore mondiale e hanno coperto l’83% dell’incremento totale dell’offerta nel 2014.
A tutto ciò si deve, in sostanza, la flessione dei prezzi che l’Opec non ha voluto arrestare con un taglio delle quote di produzione. Non è la prima volta, negli ultimi anni, che si verifica un calo così consistente: già nel 2008, per esempio, il greggio precipitò da 133 a 40 dollari nel giro di cinque mesi.
La domanda che per il momento non trova risposta, però, è quanto durerà l’attuale situazione. L’Unione petrolifera sottolinea che a queste condizioni conta il livello di prezzo a cui i vari tipi di produzione possono scendere per mantenere un’economicità: ebbene, secondo l’Up, lo shale nordamericano, l’estrazione dalle sabbie e i giacimenti artici sono già al di sopra dei prezzi attuali. Con una quotazione intorno ai 60 dollari, infatti, sono messi fuori gioco ben 11 milioni di barili al giorno, pari al 12% della produzione totale. Tuttavia, fa notare l’Up, è improbabile che le produzioni anti-economiche vengano fermate nell’immediato, con conseguente aumento dei prezzi: inevitabile è invece la frenata degli investimenti, visto che già nel 2015 i nuovi progetti non Opec appaiono limitati a 1,2 milioni di barili contro i 2,5 degli ultimi anni.
L’entusiasmo dei consumatori, in ogni caso, è smorzato dalla dura realtà dei numeri. Ce lo ricorda la stessa Unione petrolifera, nel suo «Preconsuntivo petrolifero». Per capire come mai gli effetti di un così vistoso calo del prezzo della materia prima non si riflette in maniera altrettanto forte sui prezzi praticati alla pompa, basta pensare che l’84 ‐ 85% degli aumenti registrati dal 2010 ad oggi sono stati esclusivamente di natura fiscale.
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Attualmente in Italia la tassazione sulla benzina è pari al 63% del prezzo finale contro una media europea del 58%; sul gasolio del 58% contro il 51%. Il cosiddetto «stacco fiscale con l’Europa», attualmente intorno ai 22 centesimi, è destinato ad aumentare tenuto conto che nuovi aumenti delle accise sono previsti dal 1° gennaio 2015 (DL IMU del 2013), stimati in 2,5 ‐ 3 centesimi. Ulteriori aumenti sono previsti fino al 2021 in virtù di diverse clausole di salvaguardia contenute in vari provvedimenti legislativi per un ammontare totale di oltre 3,2 miliardi di euro (al netto dell’Iva anch’essa destinata ad aumentare). Se tutte le clausole previste dovessero essere esercitate, l’aumento complessivamente sarebbe pari a 10 ‐ 12 centesimi euro/litro.
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