Virus, ora trema l'economia Delladio (La Sportiva): «Un guaio le fabbriche ferme in Cina»
Solo nel week-end il mondo economico saprà se l’emergenza coronavirus sarà un incidente di percorso o qualcosa di molto più serio, dal punto di vista della produzione industriale. Si vedrà, infatti, se come previsto termineranno le due settimane di stop, scattate in coincidenza con il capodanno cinese, o se al contrario le autorità governative prolungheranno il blocco delle attività, con fabbriche (e città) deserte.
Lo conferma Lorenzo Delladio patron de La Sportiva di Ziano di Fiemme e vicepresidente di Confindustria Trento, con delega all’internazionalizzazione. «Rispetto a venti giorni fa - spiega - la situazione si è complicata parecchio. Solo lunedì sapremo se la fabbrica che produce calzature per noi potrà riaprire.
Nel frattempo è stata cancellata anche la grande fiera del settore articoli sportivi, la Ispo di Pechino, che era in programma dal 12 al 15 febbraio, dopo l’analogo appuntamento svoltosi in gennaio a Monaco di Baviera».
Per la vostra azienda che cosa implica questo fermo?
«Se per l’abbigliamento siamo attivi in Europa e in Vietnam, per la produzione di calzature, a parte il segmento supertecnico, ci appoggiamo da molti anni soprattutto a una grande e rinomata fabbrica privata, nella zona meridionale dello Fujian, a oltre mille chilometri dall’epicentro dell’epidemia. Si tratta di un centro produttivo che ha migliaia di dipendenti e lavora per diversi marchi top di gamma. Per seguire i nostri processi abbiamo in loco due nostri dipendenti. Già ora stiamo fronteggiando ritardi di consegna ai nostri clienti nel mondo, ci mancano migliaia di paia di scarpe attese sul mercato. E naturalmente è fatturato perso. Diciamo che se tutto finisse qui, potremmo recuperare rapidamente; ma se la faccenda si dovesse protrarre, saremmo di fronte a difficoltà serie».
Sull’altro versante c’è l’export verso la Cina.
«Crediamo nello sviluppo del mercato cinese e ci stiamo investendo parecchio, consapevoli che via via la passione per l’outdoor e la montagna prenderà sempre più piede anche là. Abbiamo creato una piattaforma di distribuzione, in società con la stessa proprietà della citata fabbrica, che ha creduto in noi e ha investito su questo progetto. Nello stesso complesso produttivo si trova dunque il magazzino dal quale partono i nostri prodotti verso i negozi di sport cinesi. Ma in questi giorni a Ziano, dove con 362 addetti produciamo scarpette da arrampicata e scarponi da alta montagna, si stanno accumulando i container di merce destinata al centro distributivo nello Fujian. Abbiamo anche sei dipendenti dei nostri uffici in val di Fiemme che non possono partire, come fanno regolarmente per tenere i rapporti con la Cina».
Dilà da questo momento complicato, siete soddisfatti della vostra esperienza in Cina?
«Ci siamo ormai da oltre vent’anni e il bilancio è assolutamente positivo. La fabbricazione tecnica di alta gamma risponde appieno alle nostre esigenze. Si tratta di sistemi produttivi di elevata qualità e pure costosi, non si pensi che perché siamo in Cina tutto sia particolarmente economico. Anzi, se valutassimo i costi rapportati all’efficienza dei processi, in fin dei conti, tenere tutto qui in Italia potrebbe rivelarsi pure più conveniente ormai. D’altra parte, per le calzature sarebbe impossibile organizzare la produzione in Italia, vuoi per aspetti logistici (in zone come la val di Fiemme mancano i terreni disponibili), vuoi perché è troppo difficile reperire il personale. Questa situazione è palpabile nel distretto veneto delle calzature, a Montebelluna, dove pure abbiamo un nostro impianto con 148 lavoratori: ci sarebbero spazi per ampliarsi ma non si trovano più operai».