Le tristi montagne fra scena turistica e crisi esistenziali Arnoldi presenta il libro alla Sat
Ultimo appuntamento, domani, con l'antropologia alpina in sede Sat.
Si conclude venerdì «Trilogia alpina», iniziativa di approfondimento sulla montagna abitata fra nuovi e vecchi immaginari. Dopo gli incontri sull'identità trentina e sui nuovi montanari, la Sat ospita il sociologo Christian Arnoldi nella sede corso Rosmini 53; alla serata, in programma alle 20.30, dedicata ai disagi e ai malesseri nelle comunità alpine, parteciperanno anche l'antropologo Duccio Canestrini e la psichiatra Di Gregorio.
Arnoldi presenterà le analisi confluite nel libro «Tristi montagne» (Priuli e Verlucca) che, partendo dalla cronaca, parla del contrasto fra le immagini patinate delle Alpi e un vissuto montanaro tutt'altro che edulcorato; su una montagna fatta di suicidi, alcolismo endemico, depressioni e altri disagi talvolta nascosti.
Alla base di statistiche drammatiche, Airoldi individua diversi conflitti culturali: fra città e montagna, tradizione e musealizzazione, fantasia e disincanto, alta e bassa stagione, ambiente ostico e promozione bucolica.
«Le cronache raccolte in queste pagine, che raccontano follie e drammi di individui e di famiglie che vivono sulle Alpi, provengono - scrive l'editore canavese presentando il volume - da un lungo elenco di vicende in gran parte sconosciute, sconcertanti e persino misteriose. Messe una dopo l’altra, queste cronache costituiscono la guida a una montagna triste fatta di angosce e solitudini maturate per lo più dentro le mura domestiche e sepolte come segreti inconfessabili dentro i confini delle comunità e dei villaggi, mentre intorno frotte di villeggianti inseguono divertimenti, svaghi, relax, serenità e benessere. Questo lato segreto e oscuro delle Alpi, troppo spesso taciuto – che contrasta con l’amenità dei prati e dei boschi, la graziosità dei villaggi, la timidezza dei montanari – svela l’estrema ambiguità e complessità della realtà alpina contemporanea, là dove si rileva l’esistenza di una struttura antropologica profonda che è l’intermittenza esistenziale, generatrice inarrestabile di tragici spaesamenti».
Scrive nella prefazione Giovanni Kezich, direttore del Museo degli usi e costumi della gente trentina: «La montagna, come luogo ideale, come coacervo complesso di attributi e di valori, è stata " immaginata " ovvero costruita artificialmente ad opera dei ceti intellettuali cittadini quale scenario proprio dei valori che le sarebbero stati assegnati un po’ come si assegna una parte in una pantomima di paese: a te un cappello a larga falda, magari con la piuma o la penna, una pipa, l’alpenstock e sarai « il montanaro » – eroe culturale portatore di valori sani, complice austero e benevolo del desiderio di schiere di cittadini di adire periodicamente alla montagna per tornare alle origini, rigenerarsi, ripulirsi, ritrovare se stessi...
Alimentata e sospinta dal volano potente dell’industria del turismo, questa dimensione artefatta e teatralizzata dell’esistere diventa per molti in montagna una condizione obbligata, alla quale non è lecito sfuggire per banalissimi motivi di sopravvivenza.
Così, la vita economica di comunità intere, e di paesi anche non piccoli, ruota intorno all’effimera messa in scena dell’animazione turistica, per poi sprofondare, con la partenza settembrina e primaverile degli ultimi pullman, in una quiete catatonica e malsana. Questa condizione di intermittenza porta con sé una serie di corollari importanti. Primo fra questi è la necessità di ricaricare di continuo di contenuti inoppugnabili il senso originario della propria identità, occultandone al contempo, per quanto possibile, le ragioni vere per le quali questa si sarebbe determinata nella storia. Secondo, è quello di definire e circoscrivere molto bene il diritto di accesso a quella che appare, in virtù del contratto tacito iscritto nel sistema di valori continentale, nel « patto » non scritto tra montagna e pianura, una vera e propria " rendita di posizione ".
Ecco quindi gli orizzonti della vita alpina tingersi di sempre più marcate velleità tribaliste, e diventare sempre più chiusi, ottusi, prescrittivi, soprattutto nei confronti dei giovani, che dovrebbero piuttosto essere avviati alla scoperta, al senso dell’impresa…
È proprio in questo contesto che, nota Arnoldi, si insinuano e proliferano la devianza, l’alto tasso di suicidi, l’alcolismo endemico, il celibato coatto, la noia.
Uno scenario a tinte fosche che però, si noti bene, non ha nulla a che vedere con i mali cronici della montagna di sempre, la penuria di risorse, lo spopolamento, l’abbandono, ma si manifesta proprio in comunità ormai tutto sommato assestate, quando non decisamente opulente che, come notava qualche anno fa John W. Cole, sono uscite dalla grande trasformazione dei Sessanta e Settanta notevolmente rafforzate nelle prerogative economiche, nel senso d’identità, e soprattutto nelle modalità di accesso, per il tramite fondamentale dell’automobile e del lavoro pendolare, a un mercato del lavoro di scala sovralocale, ovvero regionale.
Transitiamo così alle nove di sera nella cosiddetta « stagion morta », in uno qualsiasi dei paesi delle valli descritte in questo libro con maggiore attenzione da Arnoldi, che le conosce molto bene essendovi nato. Ormai, nel 2000 e rotti, gli antichi luoghi della socialità contadina sono del tutto estinti e se c’è un bar, starà quasi certamente chiudendo, messo in ginocchio non solo dalla scarsa propensione paesana a sostenere esercizi pubblici autoctoni ma anche, in un mondo ormai irrimediabilmente automobilizzato, dalle nuove normative sull’uso dell’alcol per chi guida.
Forse, da dietro il portone ben chiuso di qualche sala comunale o parrocchiale, giungeranno fin sulla piazza gli echi attutiti di una socialità locale semicoatta, virtuosa finché si vuole ma esclusiva, incalzante e dunque almeno per molti un po’ oppressiva: la banda, il coro, la filodrammatica, le associazioni, con il loro scadenzario senza fine di prove, di ritualità, di obblighi. Ma ci si provi soltanto, alle nove di sera, a chiedere un’indicazione stradale, o a cercare l’abitazione di qualcuno, o a voler bere la birra di Hemingway…
Arnoldi queste cose le sa molto bene e da montanaro del XXI secolo con questo suo scritto, e con il notevole costrutto intellettuale e documentario che lo sottende, rivendica alla sua montagna, al di là di tante inutili retoriche e di tante fandonie, il diritto di essere normale».