O rei Pelè compie 75 anni, un mito del calcio Preparato un altro canevale fuori stagione

Se il calcio non si fosse chiamato cosi’, avrebbe dovuto essere denominato Pelè. La convinzione espressa un giorno da Jorge Amado è quella di 200 milioni di brasiliani. Che, coerentemente, per celebrare il 75° compleanno dell’uomo simbolo del «futebol» hanno preparato un altro carnevale fuori stagione. Con loro, festeggiano idealmente altri milioni di persone in giro per il mondo, innamorate del pallone e del suo mito più longevo e globalizzante.

Edson Arantes Do Nascimiento (come si chiamava prima di diventare il bisillabo più famoso dello sport) è nato a Tres Coracoes il 23 ottobre 1940: in una vita da copertina ha regalato record (tra tutti, unico calciatore a vincere tre mondiali, 1279 reti segnate in carriera) e soprattutto sogni.

E continua a coltivarli, come quello di colmare la lacuna di un oro olimpico diventando l’ultimo tedoforo agli imminenti Giochi di Rio, o di portare Zico alla guida del calcio mondiale al posto di Blatter.
Per lui si sono sprecate le iperboli. Atleta del secolo per il Cio, calciatore del secolo - ma ex aequo con Maradona, Pelè secondo i brasiliani è la prova dell’immortalità, in quanto sopravviverà a se stesso. O Rei è stato, ed è tuttora con Muhammad Alì, l’atleta più celebre della storia moderna, famoso nei punti più remoti dell’Asia Minore come nel cuore dell’Africa, nei deserti australiani come nelle grandi capitali. Nessun altro sportivo ha avuto più spettatori di lui, e la sua faccia è tuttora, molti anni dopo il suo ritiro, tra le più popolari del pianeta. «Sono conosciuto più di Gesù Cristo», disse una volta attirandosi critiche, ma non smentite.

È stato intervistato e fotografato più di qualsiasi altra persona: statisti, divi del cinema e tycoon vari. È stato accolto da «Rei» in 88 nazioni, e ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e 3 Papi. In Nigeria venne dichiarata una tregua di 48 ore ai tempi della guerra con il Biafra perché tutti, da entrambi gli schieramenti, potessero vederlo giocare. Lo Scià di Persia lo aspettò tre ore in un aeroporto solo per potersi fare una foto con lui, le guardie alle frontiera cinese abbandonarono i loro posti e si spostarono a Hong Kong, attirandosi le ire del regime, solo perché avevano saputo che la Perla Nera si trovava quel giorno nella città -colonia. In Colombia Pelè fu espulso durante una partita, e la folla invase il campo costringendo l’arbitro alla fuga. Il match riprese solo con il ritorno in campo del grande brasiliano, a quel punto la folla tornò disciplinatamente sugli spalti.


Quando aveva 20 anni in Brasile venne dichiarato «tesoro nazionale», e fu quindi proibita la sua cessione all’estero: ci rimase male il presidente dell’Inter Angelo Moratti che sognava di portarlo in nerazzurro e gli aveva fatto offerte molto serie. L’Italia fu anche il primo paese straniero visitato da Pelè, nel 1958 quando il Brasile si fermò per due amichevoli sulla strada verso i Mondiali di Svezia, ma il timidissimo ragazzino 17enne già stella del Santos (città del litorale paulista che lui rese famosa ovunque) non potè giocare contro Inter e Fiorentina in quanto infortunato.
Pelè è stato immortalato da Andy Warhol nella galleria dei suoi ritratti. Baurù, la città brasiliana dove cominciò a giocare, gli ha dedicato una statua che produrrebbe miracoli (c’è chi sostiene di essere guarito toccandola). Cento canzoni narrano la sua leggenda. Iperboli su iperboli, numerose quanto i suoi gol. Ma a ben pensarci tutte insieme non lo raccontano come fa il gesto plastico della rovesciata nel film «Fuga per la vittoria». Figlio d’arte di un calciatore che ebbe poca fortuna,
Dondinho, a 70 anni non sa spiegare l’origine del suo soprannome, e in privato, lui che è così popolare e pubblico regala persino momenti di grande pudore.
 
Una volta prese la cornetta del telefono e disse semplicemente «Sono Edson, come va?». Certo poi offre anche qualche legittima pacchianata: lo stadio di Maceiò e il centro di allenamento del Santos si chiamano «O Rei Pelè» e lui quando ci va gongola.

Non perde mai il sorriso, è l’uomo-propaganda ideale (ma non ha mai fatto spot per sigarette e alcolici), e per questo ha continuato a guadagnare tanto anche dopo aver smesso di giocare.
Per farlo arrabbiare c’è solo un modo: dirgli che Maradona è stato bravo quanto lui. A quel punto risponderà immancabilmente chiedendo quanti gol di testa e di destro ha segnato in carriera il rivale argentino re di Napoli. Per poi aggiungere «Io ero più completo», punto e basta, e per una conferma basta chiedere al suo collega Tostao,ora apprezzato giornalista e grande ammiratore di Maradona: «Effettivamente Pelè era davvero unico, inarrivabile», risponde ogni volta. «Quando Pelè giocava e poi si fermava in campo - ha scritto Eduardo Galeano - gli avversari si perdevano nei labirinti che le sue gambe disegnavano».
Solo Giovanni Trapattoni ne uscì fuori, ma quel giorno del maggio 1963 a San Siro il n. 10 del Brasile giocò infortunato.

Da politico (è stato ministro dello sport) e soprattutto come padre è stato meno fortunato, per sua stessa ammissione, mentre da dirigente, con il suo carisma, ha vinto l’ennesima partita importante, risultando decisivo, come testimonial, per l’ assegnazione delle Olimpiadi del 2016 a Rio de Janeiro, rifacendosi così di una delusione «perché ho sempre desiderato vincere l’oro dei Giochi e non ci sono riuscito». Verrà «ricompensato» a Rio ne sono tutti convinti, facendo l’ultimo tedoforo, quello che accenderà il braciere olimpico, nella cerimonia di apertura dell’Olimpiade carioca. Nessuno più di lui lo merita, anche se in patria c’è perfino chi lo guarda storto per via di certe sue predizioni sballate. Ma Pelè rimane un mito, quello per cui in Brasile scrivono ancora sui muri «grazie di essere nato

 

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