Le rime siberiane di Busetti e un ritorno durato due anni
«Noi poveri prigionieri / siamo trattati come tanti masnadieri / sti siberiani i crede d’eser pu de galantom / enveze i le gà tute for che de bon». Così, il 4 febbraio 1918, esattamente cent’anni fa, Carlo Busetti, prigioniero di guerra in Siberia, concludeva una sua poesiola, scritta su un blocchetto con scritte in cirillico, forse un registro, che si era procurato per dare sfogo, nel sue poemetto di oltre 50 quartine, alla sua condizione di recluso e nemico.
Una storia umana e bellica da romanzo, quella di Carlo Busetti. Nato nel 1876, all’età di 23 anni era emigrato in America, per lavorare nelle miniere, in California, dove dopo un paio d’anni aveva trovato la morte suo fratello.
A seguito di quel tragico incidente era tornato in patria, con qualche soldo in tasca, sufficiente per acquistare un po’ di terra e lavorare come contadino, professione continuata per il resto della vita. Si era sposato, dalla prima moglie, che l’aveva lasciato vedovo, aveva avuto la figlia Carlotta; e aveva quarant’anni quando era stato richiamato alle armi, inviato sul fronte orientale.
Lì era stato ferito ad un gluteo da una pallottola, da «fuoco amico», e fatto prigioniero era stato tradotto a Ekaterinenburg (dove nel luglio del 1918 furono fucilati Nicola, l’ultimo zar, e i suoi familiari), e in Siberia, dove visse in prigionia per un lungo periodo. Lì appunto si era procurato della carta, un modulario scritto in russo e aveva composto delle canzoni e steso le quartine sulla sua prigionia, concluse appunto esattamente cent’anni fa, come testimonia quel reperto, gelosamente custodito assieme a numerosi altri dal nipote Ottavio Zenoniani, figlio della citata Carlotta.
Tempi duri, descritti con ironia nelle rime del poemetto, un diario di guerra singolare e scritto con acume ed ironia. Con la Rivoluzione d’ottobre di mezzo, e una fine guerra, per lui ed altri prigionieri, molto posticipata.
Dal campo di prigionia, infatti, lui e i suoi compagni di avventura erano stati trasferiti a Vladivostok, e di lì imbarcati per una circumnavigazione dell’Asia, con scali a Yokohama, Kyoto, Shangai, transitando lungo le coste dell’India, per poi costeggiare l’Africa e attraversare il canale di Suez.
Un viaggio di mare di oltre due mesi e finalmente - come puntualmente annotato nel suo diario - l’avvistamento il 10 marzo 1919 delle coste della Calabria, per attraccare infine al porto di Napoli. Nel suo scritto Carlo Busetti aveva annotato i nomi dei commilitoni nonesi che assieme a lui vissero questo giro del mondo: un Dallatorre di Bresimo, un Anselmi di Brez, un Larcher di Cavareno, e due clesiani, un Visintainer e un Flaim.
Dallo scritto si evince la nostalgia di casa, fin dalla prima pagina, dove si legge il testo dell’Inno al Trentino?
Tornato finalmente a casa, Carlo Busetti aveva riposto i suoi scritti in una cassetta, gelosamente custodita, con i diari di viaggio e di prigionia e il poemetto intitolato «Costumi siberiani in dialetto trentino», dove con il suo innato senso dello humour aveva descritto usi e costumi delle popolazioni di quelle terre gelide e inospitali.
Il 23 febbraio qualche frammento di quel diario sarà ricordato, in una serata pubblica in Biblioteca, assieme ad altri scritti di soldati che hanno vissuto la devastante «Grande Guerra», ma non è la prima volta che le testimonianze di Carlo Busetti vengono riportate alla luce. Già lo sono state nel 50° anniversario della prima guerra mondiale e a Tassullo una quarantina d’anni fa era stato pubblicato un libriccino, sullo studio ironico-antropologico dei costumi siberiani, testimonianza che anche in momenti di dramma collettivo, quando la speranza sul futuro è appesa a un filo, l’uomo sa trovare motivi di speranza, magari affidandosi ad una matita spuntata e un pezzo di carta qualsiasi.