Quando il buio della notte ha un nome: è anoressia. Lara Luciano racconta tutto in un libro
La docente alle scuole medie e superiori, 39 anni, ha scritto “La commare secca va in vacanza”. Tutta la potenza di un racconto autobiografico dedicato ai disturbi alimentari e all’anoressia”
RIVA DEL GARDA. Quando si perde il controllo del proprio corpo, il timore di essere vulnerabili agli occhi degli altri trasforma l'inadeguatezza in un luogo. Lì, assediata e nascosta, l'anima vacilla con la paura di perdere il diritto di parola: lottando per il suo tempo scoprirà invece l'intimità di un'inedita alcova, dove il dialogo tra mente, cuore ed ossa può avere voce e risposta.
Di frammenti, ritrovati e uniti, è fatta anche la storia di Lara Luciano, docente nata nel 1983 a Riva del Garda (ove è cresciuta) e per anni residente a Roma, che ha dato forma a «La commare secca va in vacanza», un romanzo autobiografico pubblicato in aprile dall'editrice Isabella Gambini (Gambini Editore).
Attraverso una narrazione cruda, intensa e a tratti delicata, Luciano indaga le "ferie forzate" trascorse da adulta fra le corsie di un ospedale, dove il buio della notte è stato chiamato per nome: anoressia. Grazie all'incontro con altri pazienti, ha iniziato ad osservare i riflessi di un'umanità fragile, ma preziosa nel suo rivelarsi tale. Con gli studi di teologia morale nel bagaglio, insegna oggi alle medie e alle superiori.
Alterna tuttora Trentino e città eterna?
«Sì, da tre anni sono rientrata in Trentino, ma torno spesso a Roma. Eccetto la mia famiglia, lì ci sono le relazioni più significative per me. Qui sto lavorando e frequentando di nuovo l'università. Sono in ricostruzione direi. Vivere in due regioni mi ha concesso di sperimentare che il diritto e le opportunità di cura non sono equamente distribuite: esiste una forte disparità nell'accesso ai servizi ed è rilevabile nella possibilità di usufruire gratuitamente delle cure quanto nella qualità dei percorsi offerti. Il tipo di risposta che viene data a questi bisogni tradisce come sono recepiti e valutati».
Cosa l'ha spinta a scrivere la sua storia?
«Mi muovo con carta e penna in mano da sempre, è il modo con cui mi concedo inquietudine in uno spazio controllato. Questa volta si è aggiunta un'urgenza legata alla memoria che pensavo di perdere a causa delle terapie. Anche la percezione di aver avuto, per il lungo periodo in clinica, un punto di vista unico e irripetibile. Scriverne mi ha fatta sentire libera e legittimata davanti a me stessa. Ho ragionato sulle cose imparate e disimparate per riportarle senza limature o scappatoie. Sono state frasi espirate: quando ho riletto la bozza, ho capito di essere di fronte a un testo fatto per comunicare. Mi ha impensierita e incuriosita, non sono la persona più comunicativa del mondo. La prima ad essere stata raggiunta dal libro sono stata io».
Era preoccupata al pensiero della pubblicazione?
«Sì, non amo espormi e nel testo, nella mia vita, ci sono temi che si prestano ad essere divisivi. Stare nelle contraddizioni è fondamentale per mantenersi aperti alla realtà, che è complessa, ma non vuol dire evitare di assumersi la responsabilità di una posizione. Piuttosto, ci dobbiamo considerare sempre precari. Più che eventi vissuti, ho analizzato i processi con cui li compresi».
Quale ruolo hanno avuto i suoi studenti?
«L'insegnamento chiede di assumere il punto di vista di chi si ha di fronte, mettendo in atto le proprie competenze. Rispetto a questo, la malattia può essere un'alleata o un impedimento, perché permette di sentire di più o di meno la vita degli altri. Confrontarsi con gli adolescenti mette a nudo: non possono essere ingannati e hanno domande radicali. Ti sfidano ad essere solido. Molte volte mi sono sentita impreparata, non all'altezza. Qualcuno di loro mi scrive per dirmi cosa ha capito oggi di letture fatte dieci anni fa; mi stupisce si prendano il tempo per raccontarmelo. Ho fatto tesoro del contatto con gli studenti di un liceo coreutico. La danza coniuga rigore e creatività, introspezione ed espressività. Mi sono rimessa a studiare, non c'era altro da fare. Questo mi ha permesso di essere critica, anche rispetto a me. Ho cercato di tracciare un confine un po' più spesso tra me e loro e permetterci di viverlo dentro, non troppo comodi. È stato ricco, ne sono grata».
Quanto incidono gli sguardi e i giudizi degli estranei?
«Incide la pigrizia, spesso chi si confronta con certi argomenti non si prende il tempo per studiarli. Ci si accontenta di rappresentazioni semplificate, lineari, rassicuranti. Questo irrigidisce il confronto e isola ancora di più. Chi attraversa alcuni vissuti, ha una profonda competenza in quello che lo riguarda, semplicemente perché è stato smentito su tutti i fronti rispetto a ciò che pensava di sé e perché fa un lavoro tremendo per capire cosa succede. Imporre giudizi o soluzioni fondati sul sentito dire, sull'intuito, sminuisce ulteriormente la persona, mettendola nella posizione di chi deve ricevere trasfusioni di certezze evidenti a tutti, tranne che a lei. Purtroppo, bisogna riconoscere di sapere ben poco».
Con quali parole racconterebbe la malattia a chi crede che l'anoressia sia solo materia di giovani con "problemi adolescenziali"?
«So quali metterei da parte, in sospeso: volontà, coraggio, paura, cibo, fame, digiuno, peso, corpo. Ne porterei in primo piano altre: identità, relazioni, compiti, immaginario, visibilità, riconoscimento, sfida, contraddizione. Sono temi che riguardano tutti e che tutti affrontano con diverse strategie, manifestando differenti sintomi. Il fatto che ci sia di mezzo il corpo ha contribuito alla confusione tra sofferenza e superficialità. Ma chi affronta questi disturbi, ha anche un corpo e un aspetto sano, può avere diverse età, essere uomo o donna. Il libro non è e non ambisce ad essere una storia di guarigione, un testo esemplare. Spesso viene raccontato il prima e il dopo di una malattia e mai cosa sia accaduto nel mezzo. È un processo personale e che "semplicemente" accade. Il mio bottino, in queste esperienze, è che la sofferenza non ci appartiene. Ci ribelliamo ad essa, fino al punto di annullarci pur di vederla scomparire, a prova del fatto che siamo programmati per qualcosa d'altro. Vedere anche la malattia come una strategia di sopravvivenza permette di fare un passo verso l'uscita».