Incastrato da Facebook: il licenziamento è giusto
E per il giudice il lavoratore deve pagare pure i danni
Non capita spesso di assistere ad una sentenza in cui il giudice dà ragione ad un datore di lavoro di fronte alla causa presentata da un suo dipendente. Proprio in virtù del fatto che la legge stessa tende a tutelare maggiormente i lavoratori, a garantire giustamente diritti e garanzie in un rapporto che può risultare talvolta impari. Stavolta, invece, non solo il lavoratore in questione ha perso le controversie per mobbing e per ingiusto licenziamento, ma il giudice ha ritenuto che il suo tentativo di ottenere un risarcimento per quanto subìto fosse addirittura temerario. Per questo, oltre alle spese legali, dovrà saldare anche i cosiddetti «danni punitivi» per una causa intentata che è stata considerata temeraria.
Facciamo un passo indietro per capire la vicenda. Il lavoratore in questione è un ragazzo poco più che ventenne ma non è alla sua prima esperienza di lavoro. Viene assunto a tempo indeterminato da un salone di parrucchieri ma presto il rapporto con il suo datore di lavoro inizia ad incrinarsi: cominciano una serie di assenze per malattia che, però, non appaiono giustificate dal suo stato di salute ed anche il suo comportamento sul luogo di lavoro non è collaborativo. Questo almeno è quanto ritiene il proprietario dell’attività, che ad un certo punto decide di licenziare il suo dipendente.
Il ragazzo è fermamente convinto di aver perso il posto di lavoro ingiustamente. Ritiene perfino d’essersi ammalato per come veniva trattato al lavoro. E allora risponde al licenziamento con due diverse cause legali. Nella prima, che viene presentata al tribunale di Trento, accusa il suo datore di lavoro di averlo «mobbizzato», sostiene che sia da attribuire a lui la colpa della malattia che lo ha tenuto lontano dal lavoro. Poi intenta un’altra causa, stavolta di fronte al tribunale di Rovereto, per il licenziamento che ritiene ingiusto perché legato alle assenze per malattia.
Quando arriva il momento di discutere la causa, il datore di lavoro illustra al giudice tutte le sue perplessità sul fatto che il suo dipendente fosse realmente malato. Lo fa attraverso una serie di ragionamenti: i certificati di malattia coincidevano con l’inizio della settimana lavorativa, il martedì, e si cocludevano il sabato. Alcuni coincidevano con quelli della sua ragazza, anche lei dipendente del negozio. Difeso da un noto studio legale della città porta inoltre in aula alcune prove: una serie di fotografie postate su Facebook dai locali frequentati dal ragazzo, dove veniva immortalato nei fine settimana in splendida forma. Oppure testimonianze fotografiche dei suoi giri in moto. «Quei giorni mi servivano per rilassarmi e riprendermi, perché ero stressato dal lavoro», si è giustificato in tribunale.
l giudici però non hanno creduto alla sua versione ed oltre a respingere entrambe le cause nei confronti del datore di lavoro, che è stato quindi assolto, hanno condannato il ragazzo anche al pagamento dei danni. Anziché ottenere un risarcimento dunque (aveva chiesto dalle 12 alle 24 mensilità, quindi all’incirca 30 mila euro) dovrà ora saldare le spese legali sostenute dagli accusati (all’incirca 4 mila euro), ma anche mille euro di «danni punitivi». Quest’ultimi sono previsti dall’articolo 96 del codice di procedura civile, secondo il quale «se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave» è tenuto a pagare ulteriori danni.