E ora rischiamo  la fine di Weimar

È il trionfo di Grillo e della sua astutissima e abilissima strategia di «sfascio» totale del sistema, a cui il Pd si è immolato. Ora è Grillo il kingmaker, il «dominus» dell'Italia, l'uomo che deciderà se e come si farà un Capo dello Stato, se e come il Paese avrà un governo, quante volte si andrà a elezione fino a che non otterrà la maggioranza assoluta, come ha sempre e con assoluta chiarezza dichiaratoI tuoi commenti

di Pierangelo Giovanetti

prodi mariniLa fucilata alle spalle di Romano Prodi, il padre fondatore, simbolo dell'Ulivo e del Pd, segna la fine della sinistra italiana, che si è dissolta in mille brandelli impazziti, accecati dall'odio e dalla tribale vendetta di ciascun clan. Anche il leader d'onore, la figura più prestigiosa, la carta migliore da spendere per la Presidenza della Repubblica, è stata immolata in una follia collettiva alimentata a colpi di tweet. E il re della rete, il maestro del web, il comico delle quirinarie delle quali non si sa chi ha votato, come, in quanti, e con quali garanzie, ha messo a segno il suo capolavoro: l'Opa riuscita sul primo partito del Paese, il Pd che non c'è più, divorandone le spoglie.


«Arrendetevi, siete circondati», aveva gridato fuori dal Palazzo il capopartito più corteggiato e blandito per settimane da Pierluigi Bersani e dall'insipiente masnada che gli si accalcava attorno. E il Pd si è arreso, ha ceduto, è uscito fuori con decine e decine di grandi elettori a mano alzate, e si è consegnato a Grillo e al suo sito web, quello inventato e controllato dal genio del marketing Casaleggio. Il giorno in cui poteva essere eletto Romano Prodi presidente, l'unico che per due volte aveva battuto Berlusconi alle elezioni, il tam tam del web e le raffiche di tweet mitragliate su un inconsistente partito di inconsistenti parlamentari, hanno dissolto l'ultima uscita di sicurezza. Non solo per il Pd, ma anche per il Paese, che mai come ora rischia la deflagrazione istituzionale, la fine di Weimar e della sua svuotata democrazia.


Come spiegare altrimenti le decine e decine di voti del centrosinistra fioccati su Stefano Rodotà, uno dei più vecchi (non solo anagraficamente) politici sulla scena, parlamentare navigato dal 1979, titolare di quattro superpensioni d'oro, tra cui quella di eurodeputato e il vitalizio di Montecitorio?  Oltre alle indennità come capo dell'Antitrust e garante della privacy, e quella di professore universitario. Come spiegare la corsa dei grandi elettori della sinistra a votare il «simbolo del nuovo» che in realtà non è tale, ma che appare tale perché qualcuno dalla rete lo ha fatto ritenere tale?

 

È il trionfo di Grillo e della sua astutissima e abilissima strategia di «sfascio» totale del sistema, a cui il Pd si è immolato. Ora è Grillo il kingmaker, il «dominus» dell'Italia, l'uomo che deciderà se e come si farà un Capo dello Stato, se e come il Paese avrà un governo, quante volte si andrà a elezione fino a che non otterrà la maggioranza assoluta, come ha sempre e con assoluta chiarezza dichiarato.

 

Mentre il Pd nella notte perde gli ultimi pezzi, tra dimissioni generali, abdicando al suo compito storico di guidare il Paese verso un'intesa larga e di alto profilo sul Presidente della Repubblica, prima ancora che di governo, non c'è più nessuno che ha in mano il bandolo della matassa. E intanto Grillo continua con il miele e la carta moschicida a paralizzare e catturare grandi «piccini» elettori del Pd e dei suoi vendoliani drappelli di complemento, rimasti senza più un'idea, un progetto, un piano politico, un'exit strategy, sotto gli occhi sgomenti del Paese e dell'Europa.

 

In tutto questo l'altro grande avversario del Pd, il «nemico storico», Berlusconi e le sue truppe, hanno capito che si gioca la partita finale, e hanno lasciato il Partito democratico a macerare nella sua dissoluzione, rosolandolo a fuoco lento. È come il 1992, con la fine della Dc e dei partiti alleati. Solo che allora le bombe della mafia scrollarono lo choc e la paralisi di un partito agonizzante, tanto da spingere ad un barlume di resipiscenza di una candidatura istituzionale, l'ex ministro dell'Interno, in grado di salvare non il partito, ormai perso, ma il Paese, sull'orlo dello sfascio tra le grida desiderose di sangue e ghigliottina di sanculotti e giacobini.


Dio ce ne scampi dal ripetersi dei tragici fatti di allora. Ma di un gesto forte e coraggioso c'è comunque oggi bisogno per evitare alla Repubblica italiana la fine di Weimar, inghiottita da troppa pseudo-democrazia assemblarista e dall'abdicazione al proprio compito delle forze politiche e delle istituzioni, che anche allora si lasciarono suicidare con conseguenze immani per la Germania e per l'Europa intera.

 

Chissà se c'è ancora qualcuno, magari sul Colle, in grado di pensare una soluzione politica ancora praticabile al di là della follia delle folle e della dittatura del web, instaurata sui cadaveri dei partiti? Senza questa via d'uscita non c'è alcun altro tipo di sbocco. Nemmeno le elezioni anticipate che, a quel punto, saranno il primo atto obbligato dell'eventuale nuovo inquilino del Quirinale.

 

E per l'Italia non resterà che la paralisi totale, la ribellione - sì, stavolta quella vera dei cittadini, non soltanto quella del profluvio di twitter-. E il commissariamento (politico prima che economico) dell'Europa. Peggio che la Grecia.

 

p.giovanetti@ladige.it
Twitter: @direttoreladige

 

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