La difficile eredità  che ci lascia Dellai

Luciano Azzolini: «Lorenzo Dellai ha gestito, quasi in solitudine, questa terra per quasi 25 anni: 8 anni da sindaco di Trento con la crisi della Prima Repubblica e, poi, 15 anni da presidente della Provincia. Una successione non facile anche perché i morsi della crisi si fanno ormai sentire anche nel Trentino ed alcuni nodi stanno venendo al pettine, soprattutto con la consapevolezza di dover fare i conti con delle risorse limitate» I tuoi commenti

DELLAI ZAINOLe primarie del cosiddetto centro-sinistra-autonomistico aprono ufficialmente la corsa al dopo-Dellai visto che il suo successore Alberto Pacher ha da tempo deciso di farsi da parte. Una decisione che va doverosamente rispettata ma che rimane, per alcuni aspetti, carica di interrogativi. Si apre la corsa ad una successione non facile visto che Lorenzo Dellai ha gestito, quasi in solitudine, questa terra per quasi 25 anni: 8 anni da sindaco di Trento con la crisi della Prima Repubblica e, poi, 15 anni da presidente della Provincia. Una successione non facile anche perché i morsi della crisi si fanno ormai sentire anche nel Trentino ed alcuni nodi stanno venendo al pettine, soprattutto con la consapevolezza di dover fare i conti con delle risorse «limitate». Dopo tutto questo tempo è quindi comprensibile che da più parti venga invocata l'esigenza di un cambiamento se non di una discontinuità. Sostantivi che evidenziano, non solo e non tanto un giudizio politico sulla gestione di questo quarto di secolo, quanto la consapevolezza di segnare un punto e a capo rispetto all'esperienza precedente. Nel giugno dell'anno scorso è stato proprio il direttore di questo giornale, Pierangelo Giovanetti, ad invocare una discontinuità. Sollecitazione che, evidentemente, non è stata accolta con particolare favore. 

È evidente che i candidati alle primarie di coalizione, Gilmozzi, Olivi e Rossi, non sono, sia pure in diversa misura, estranei a questi ultimi cinque anni di governo, ma sono tutti consapevoli che la carta del «cambiamento» sarà quella che determinerà il successo, non tanto delle primarie, quanto dell'appuntamento elettorale vero, cioè quello autunnale delle elezioni provinciali.
I partiti arrivano alla celebrazione delle primarie un po' svuotati: il Pd ha forse commesso un errore a non celebrare le primarie all'interno del partito visto che sono contemplate nei sacri testi statutari. Ora arriva all'appuntamento con molti mal di pancia; un coinvolgimento avrebbe rafforzato il vincolo di appartenenza di tutti i partecipanti, anche dei perdenti. Ora si ha l'impressione che così non sarà, con tutte le ovvie conseguenze. Olivi, cui tutti gli riconoscono indubbie capacità, dovrà faticare non poco se vuole tagliare il traguardo da vincitore.
Rossi è quello che più di tutti ha creduto nelle primarie di coalizione. Ha lavorato molto e si è preparato con la dovuta determinazione per questo appuntamento. Ci crede e ha fondate ragioni per alzare il calice del vincitore. Determinante sarà l'apporto dal Patt, d'altra parte è l'unico candidato che può contare sul pieno appoggio di un partito strutturato, organizzato e soprattutto motivato. Non è poco. A Gilmozzi va riconosciuta la grande virtù della pazienza e non solo. Il suo capo, prima di indicarlo, è andato a cercare candidati da tutte le parti…mentre il suo stesso partito, ovviamente all'insaputa del suo stesso capo, puntava su altri candidati ancora. L'Upt, in ultima analisi, continua ad essere sballottato tra Scilla e Cariddi incapace di individuare un suo percorso. La nascita del movimento di Grisenti ne è la prova più lampante. Per non parlare delle contraddizioni politiche, ce ne sarebbe altre di altro spessore, tra l'Upt di cui Dellai è il leader indiscusso e i comportamenti di Scelta Civica, il partito di Monti, di cui lo stesso Dellai è capogruppo alla Camera e non in uno sperduto comune del Trentino.
Il vincitore delle primarie di fine settimana, chiunque esso sia, si dovrà misurare con una successione complessa, non sicuramente facile da raccogliere.
Per prima cosa va osservato che in questi decenni, durante i quali Dellai ha governato più a lungo di un qualsiasi faraone (tanto per dare una dimensione al tempo), si è registrata la corsa a osannare le gesta del Governatore, del Magnifico, del Principe, del Grande stratega, del Fine politico. E chi tentava, o tenti ancora?, di sollevare qualche timido dubbio veniva immediatamente etichettato come un «residuato» della Prima Repubblica, oppure, se più giovane, arrivavano puntuali i «richiami» all'ordine. Quasi che sollevare una critica fosse una sorte di lesa maestà!
Il peso, la forza, la personalità, il senso tattico di Dellai sono risultati determinanti nel caratterizzare il governo di questi anni. Non sarà facile per nessuno ricalcare quelle orme. E forse non è nemmeno giusto.
Più difficile è fare i conti con l'azione di governo di Dellai. E' stata quanto mai complessa e andrebbe analizzata con particolare attenzione soprattutto per gli effetti che avrà nel tempo. Ora è troppo presto, anche se le sue scelte sono sotto gli occhi di tutti e ciascuno ne darà, ovviamente, il giudizio che più ritiene opportuno.
Oggi credo serva uno sforzo di approfondimento politico per comprendere come si è potuto consolidare un «sistema di riferimento» in capo al Presidente, che ora, magari in modo «silenzioso», viene da più parti messo fortemente in discussione. Di qui la richiesta più o meno esplicita di avviare un «cambiamento», di dare corpo ad una «discontinuità». Occorre cioè capire come questa «concentrazione di potere», abbinata a una leadership indiscussa, si sia potuta radicare al di là del comune sentire partecipativo che, a giudizio di molti, dovrebbe ancora appartenere al dna di questa terra. Un popolo che vanta migliaia di cooperatori, di associazioni, di gruppi e che perciò dovrebbe avere nella partecipazione l'elemento chiave di convivenza. Forse non è più così.
Il quadro che abbiamo davanti è complesso e non è facile trovare un filo conduttore. Nondimeno, si possono tentare alcune osservazioni.
La prima è di ordine generale e riguarda il Paese, prim'ancora che il Trentino. Ci si è convinti che la «complessità dei problemi» avrebbe trovato una soluzione nella «verticalizzazione» del comando e nella «personalizzazione» del governo. È stata una sorta di fuga dalla realtà. La soluzione di un problema complesso, infatti, richiede il paziente concorso di più «teste», di più «occhi»: si è invece deciso di fare l'opposto, di affidarsi cioè a un capo. Così, per molti aspetti, i problemi si sono ulteriormente complicati e le radici della partecipazione democratica si sono rinsecchite generando una sorta di timore, quando non un'aperta paura per le possibili ritorsioni, a esprimere pubblicamente le proprie opinioni. L'effetto è stato una progressiva e dilagante deresponsabilizzazione (si guardi oggi agli indici di astensione), con i partiti ridotti a fragili contenitori più che a luoghi di elaborazione e confronto politico. Il tutto condito dalla perenne ricerca del taumaturgo di turno. Qualche anno fa c'era Berlusconi e i suoi miracolosi «contratti» con gli italiani, l'altro ieri tutti invocano il superconsulente ed il super tecnico Monti quasi fosse l'uomo della provvidenza, ieri molti speravano nel miracolo Grillo ed oggi si confida nella pacificazione che non è una politica, ma solo una pre-condizione per tentare di realizzare una politica. Il Trentino non è rimasto immune al trend. Negli ultimi due decenni e mezzo ci si è «affidati» nelle mani di Lorenzo Dellai e chi ha tentato, non già di opporsi, ma almeno di indicare percorsi diversi, è stato, con le buone o con le cattive, accantonato. Dellai, e non certo Renzi, è stato il primo grande vero rottamatore di persone e con loro di esperienze politiche.
La seconda osservazione riguarda il funzionamento del sistema politico trentino. Un sistema regge nella misura in cui respira a «due polmoni», quello istituzionale e quello politico. Quest'ultimo riconosce nei partiti il suo asse portante. Dellai dagli inizi degli anni Novanta, quando appoggiava le tesi di Leoluca Orlando, ha concentrato nelle sue mani sia il potere istituzionale e sia quello politico, riempiendo così il vuoto creato dalla crisi del '92-'94. Lo poté fare sia perché era sindaco del Comune capoluogo (forse non sarebbe accaduta la stessa cosa se lo fosse stato in qualsiasi altro comune del Trentino) e sia perché, in quel frangente, i partiti erano considerati il «male». In realtà Dellai, oltre che nei confronti dei suoi oppositori interni, ha sempre mostrato insofferenza anche nei confronti dei partiti. Ma una democrazia sana ha sì bisogno di istituzioni forti, ma anche di partiti altrettanto forti. Anche alla luce del dettato costituzionale, non c'è l'uno senza l'altro. Dellai, invece, ha utilizzato i partiti per quello che gli potevano servire, li ha aperti e chiusi a piacimento e non solo nella sua area di riferimento. Nella sua concezione politica il dibattito istituzionale avrebbe esaurito le istanze del confronto politico nella sua totalità. Oggi, forse, la pensa diversamente anche se bisognerebbe capire il perché. I partiti, infatti, hanno, o dovrebbero avere, ben altri compiti, inclusa un'adeguata selezione della classe dirigente, per passare alla mediazione fra le diverse idee ed istanze della società civile, fino a indicare le linee di sviluppo e crescita della comunità. Questa prima «concentrazione» di potere istituzionale e politico trova la sua definitiva consacrazione nel momento in cui il sindaco di Trento approda a Piazza Dante. E lì, con la riforma elettorale, «blinda» il suo disegno «politico».
È una legge, e siamo alla terza osservazione, senza precedenti. Assomma i poteri in capo al Presidente della Provincia come dimostra il caso della Giunta provinciale che, sminuita e ridimensionata in quanto organo istituzionale, diviene di fatto l'insieme dei collaboratori del Presidente. Gli assessori divengono «collaboratori» del Presidente, non siedono più sui banchi del Consiglio provinciale perdendo quindi la loro natura di espressione consigliare delle forze politiche. Al loro posto - in ossequio al principio delle porte girevoli - entrano a far parte dell'organo legislativo i primi dei non eletti delle varie liste. Nei mesi scorsi tale originale meccanismo è stato soppresso. E gran merito di questa battaglia va ai giovani della Bussola di Ala che per primi, con la presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare, ne hanno chiesto la cancellazione. Si trattava di un congegno perverso in base al quale, per evitare possibili ripercussioni personali (rinuncia al seggio per una possibile crisi di governo), si determinava una sorta di inamovibilità di tutti gli organi istituzionali dando luogo ad una «stabilità» istituzionale che si reggeva più su una malcelata convenienza che su linee e valori politici. In tale contesto il ruolo del potere legislativo usciva ridimensionato, mentre quello del Presidente della Provincia risultava ingigantito, nel senso che i poteri di quest'ultimo trovano una legittimazione in una legge che, fra l'altro, evita pure di indicare adeguate misure di controllo e di compensazione. È una legge che andrebbe ancora ulteriormente rivista proprio sotto questi altri aspetti.
La quarta osservazione riguarda gli ambiti di poteri pubblici che sono stati delegati alle cosiddette Agenzie, o, meglio, agli organi funzionali della Provincia denominati Agenzie. Sono più di una quarantina e spaziano nei settori più diversi. Sono in gran parte delle Spa e quindi sono fuori dal controllo politico pubblico ma, in quanto suoi organi funzionali, sono soggetti al controllo della Provincia e, quindi, del suo Presidente. Anche tale ambito ha nel Presidente della Provincia il principale punto di riferimento. Se a ciò si aggiungono, sia pure indirettamente, l'Università e i suoi diversi istituti di ricerca - soprattutto quelli legati alle facoltà tecniche e scientifiche che sono ovviamente le più ricche in termini di risorse da investire - è impossibile non accorgersi di come tutto il «sistema» ruoti attorno alla figura del Presidente.
Se accanto a queste prime considerazioni di «impianto» si aggiunge l'utilizzo delle risorse dell'autonomia - dalle spese per le Comunità di valle fino per finire agli interventi in ambito industriale - emerge un quadro che denota come la comunità provinciale, nelle sue diverse articolazioni, abbia un esclusivo punto decisionale: il Presidente della Provincia.
Quando si parla di «discontinuità» si manifesta l'esigenza di aprire una nuova fase dell'autonomia trentina. Una fase che non verta tanto su nuovi Statuti (al momento sarebbe come darsi la zappa sui piedi), quanto piuttosto sull'avvio di nuove politiche per un più appropriato utilizzo delle risorse, per rimettere in moto le parti sane dell'economia trentina e porre in discussione ruoli e ambiti dell'intervento pubblico. Insomma, un sistema autonomistico che va ripensato nei suoi strumenti, nei suoi valori di riferimento, nella sua articolazione amministrativa, nella sua prassi quotidiana, in una diversa suddivisione di responsabilità tra pubblico, privato e collettivo.
Ma chi può aprire, in Trentino, questa nuova pagina? I partiti? La società civile? Qualche lista civica? L'impressione è che l'attuale maggioranza (Pd, Upt e Patt) sia per la continuità. In verità il dibattito nel Pd, tra continuità e discontinuità, è uscito allo scoperto nei mesi scorsi con uno scambio di battute pepate tra il capogruppo del Pd, Luca Zeni e l'assessore all'Industria, Alessandro Olivi, sulla politica industriale. Osservando più attentamente i termini della questione va detto che Zeni ha posto l'accento principalmente sull'utilizzo deviante dello strumento del lease back, mentre Olivi ha visto nell'intervento del suo capogruppo un attacco a tutto l'impianto legislativo del suo assessorato. Le cose non stanno così.
D'altra parte, e siamo alla quinta osservazione, in questi due decenni e mezzo, non si è registrato un consolidamento di partiti forti. Solo il Patt ha mantenuto la sua struttura territoriale, mentre il Pd, con tutte le sue anime, sta lavorando molto per diventare un indispensabile punto di riferimento. Ecco l'esito della tendenza a formare di volta in volta piccoli «contenitori» o «partiti personali». Una debolezza che ha portato soprattutto la tanto lamentata carenza di classe dirigente.
A ben osservare, dunque, è proprio sul terreno più squisitamente politico che Dellai ha evidenziato la sua maggiore difficoltà, se non il suo fallimento. In venticinque anni non è riuscito a ricomporre l'area di centro di ispirazione cristiana, e non solo, da cui proviene, e che, quand'era segretario del partito popolare, ben avrebbe potuto realizzare. Ha rafforzato, invece, i propri poteri di governo, evitando di dare voce a un partito altrettanto forte. Del resto, un partito forte gli avrebbe impedito, o almeno limitato, l'esercizio di tutti quei poteri, vorremmo dire quasi assoluti, di cui ha, invece, goduto in questi due decenni. Ha continuato a fare e disfare partiti personali - quello di Chivasso dell'anno scorso è solo l'ultimo esempio - quasi si trattasse di un gioco. Dellai ha cavalcato la convenienza tattica, di cui è insuperabile maestro, ma ha di fatto rinunciato a creare una forza politica capace di interpretare un pensiero e di dare una prospettiva politica a questa terra. La tattica ha prevalso sulla politica. Ha governato quasi in solitudine una comunità che ora, nelle sue diverse espressioni, appare smarrita. Ha preferito la fedeltà innocua e ubbidiente alla lealtà impegnativa e critica. Ecco le vere sfide che attendono il successore di Dellai. Non sono poche e soprattutto non sono semplici. Soprattutto se si affrontano in solitudine.

]]>

comments powered by Disqus