Simoni e Zortea sul Dhaulagiri il primo «ottomila» a firma trentina
Quarant’anni sono passati da quell’eroica spedizione delle guide alpine primierotte alla conquista del Dhaulagiri I, la Montagna delle Tempeste, come l’hanno battezzata gli alpinisti, che si eleva maestosa e solitaria dalla catena himalayana del Dhawala Giri come un’immensa piramide.
Il 4 maggio 1976 le Guide Alpine Giampaolo Zortea e Silvio Simoni arrivavano sulla vetta avvolta nella bufera, a 8.172 metri: fu il primo ottomila conquistato da una spedizione di alpinisti trentini e in ordine di tempo, il terzo ottomila italiano.
E nei giorni scorsi, invitati dall’Apt Smart, i conquistatori assieme a Edo Zagonel, Luciano Gadenz, Gianpaolo Depaoli, Gian Pietro Scalet, Francesco Santon (vice capo spedizione che aveva ottenuto il permesso per la cresta sud ovest ancora inviolata) e il medico Achille Poluzzi hanno aperto il loro cuore al numeroso pubblico, lasciando uscire le loro emozioni e i loro ricordi. Mancavano l’indimenticato Camillo Depaoli e Renzo Debertolis, il mitico capospedizione, che ha fatto miracoli in tempi record (solo tre mesi per organizzare e recuperare i finanziamenti, il viaggio, il trasporto di 104 casse di viveri e materiali e tenere unito un gruppo di amici neofiti dell’alta quota), ma la sua presenza si è sentita forte quando Gian Pietro Scalet ha letto vari passi del suo intenso diario; del gruppo facevano parte pure il forte alpinista Sergio Martini e lo scomparso Luigino Henry, che affiancavano la spedizione per la loro valida esperienza.
L’emozione era percepibile quando Giampaolo Zortea ha ripercorso l’avvicinamento alla vetta: «La notte precedente al campo 5 non abbiamo dormito per niente; abbiamo trovato i resti del campo 4 degli Americani (1973) e ci siamo mangiati le cioccolate che avevano lasciato. Ad una certa ora ci siamo detti "dobbiamo andare", il tempo non era né brutto né bello, ma non si poteva aspettare.
In cordata a due io e Silvio, abbiamo dovuto cercare un indirizzo per la vetta e soprattutto un itinerario il più sicuro possibile: un tratto in diagonale per superare una cresta. Si è alzato il vento ed è diventata cattiva: ci siamo portati avanti piano piano finché controllando l’altimetro parlo con Silvio e dico, ci siamo eh, un colpo di vento e vedo la calotta davanti a noi. Come ho detto a Pippo Baudo (che li aveva intervistati per Domenica In, ndr), mi sono accorto di essere in cima quando il vento ha aperto uno squarcio di sereno e ho visto che oltre c’era solo il vuoto».
Silvio invece pensava già al ritorno: «Come ogni alpinista quando arriva in cima, ho pensato a come rientrare. Salire è di per sé è faticoso, ma scendere è pericoloso, in Himalaya è pericolosissimo. Iniziamo velocemente, io salendo avevo guardato bene la roccia per non perdere la strada al ritorno, ma non ce la facevo più.
Camminavo un po’, poi chiamavo Giampaolo, facevo una capriola, mi fermavo con la piccozza, allora lui mi ha detto ?vai avanti tu, ti tengo con la corda? Abbiamo sbagliato itinerario, ci siamo trovati sopra a dei canalini difficili, abbiamo trovato le corde degli Americani, ci siamo aiutati con quelle e mi sono portato a casa un loro moschettone con la scritta «hope», speranza. Arrivato fuori dal ghiacciaio sul prato, beh, io ho abbracciato la terra, mi sono attaccato all’erba».
Una spedizione che oggi si può definire eroica, tutto il materiale - dalla legna per scaldarsi e cucinare alle centinaia di metri di corda - portato a spalla senza elicotteri.
Tutti tennero duro nonostante il tempo pessimo, anche quando le radio smisero di funzionare e da un campo all’altro si comunicava solo trasportando bigliettini e il cibo scarseggiava. E Gianpaolo Depaoli, il cuoco, racconta: «Non c’erano allora barrette energetiche: nella risalita avevamo comperato alcune capre, tagliate a pezzetti a mo’ di spiedini, messe in sacchetti di nylon con sale e peperoncino e la sera li affumicavamo sul fuoco per conservarli.Ma gli sherpa se li sono mangiati. Allora ci siamo fatti portare al campo base una manza, che è arrivata trascinata per terra, tutta sporca e piena di fango e ho fatto uno spezzatino e un brasato che ho diviso in porzioni congelate nel ghiaccio e spedite ai campi alti. Bastava poi buttarle in padella per mangiarle».
Per fortuna, il puzzo della forma di formaggio di Malga Pala, buonissimo, con la goccia, non aveva attirato la curiosità degli sherpa.
Ed è stato il medico, ora arzillo novantenne Achille Poluzzi a spiegare bene le difficoltà di adattamento: «Inimmaginabili gli sforzi e le sofferenze che hanno sopportato per portare avanti i campi. È una tragedia psicofisica, inumana, quella che sperimentano gli alpinisti a quelle quote, ma i nostri non avevano bisogno di pillole, avevano una forza d’animo eccezionale. L’alpinismo ha questa capacità, di formare persone con una grande profonda morale di solidarietà, la forza più grande della natura, che ci salva dalle brutture del mondo».