L'appello di Lorenzo Dellai al centrosinistra «Ghezzi e Daldoss per rigenerare l'alleanza»
Lorenzo Dellai cammina ancora un po' incerto per i postumi di un infortunio sugli sci dell'aprile scorso. La forzata immobilità, durata alcuni mesi, seguita all'altro trauma subito in questo inizio 2018 e per lui molto più doloroso - ovvero la sconfitta alle elezioni politiche del 4 marzo - gli ha lasciato molto tempo per ripensare e riorganizzare il suo futuro, che per l'ex presidente della Provincia non potrà mai essere senza politica, perché la politica è la sua vita. Ma questo non vuol dire avere ruoli istituzionali e infatti oggi Dellai esclude suoi possibili ritorni.
In questi cinque mesi, però, non solo ha seguito e sta seguendo da fuori i travagli di un centrosinistra autonomista indeciso tra il Rossi bis e il cambiamento, ma ci ha messo del suo per cercare di creare le condizioni per quella «rigenerazione» del progetto politico della coalizione, che passa anche da nuovi leader, e che Dellai ritiene necessaria per una proposta che ha l'ambizione di cercare di essere vincente. E la discesa in campo del solandro ex Dc, Carlo Daldoss, con i sindaci civici, abbinata però al dialogo subito aperto da Paolo Ghezzi, il volto nuovo del centrosinistra, espressione di un'area più di sinistra e cittadina, vede dietro queste due figure i buoni auspici proprio dell'ex governatore, che già mesi fa aveva contattato Ghezzi, come alternativa a Rossi, e poi in questi giorni ha favorito e incoraggiato l'asse Daldoss-Ghezzi.
Nelle ultime settimane ha partecipato a quasi tutti i Parlamentini dell'Upt, ha rivolto un appello a Francesco Valduga e al Pd e non ha mancato di dire anche pubblicamente la sua su questa crisi del centrosinistra autonomista nella individuazione del leader. Lo stesso Rossi si è convinto che Dellai sia l'«anima nera» dietro tutte le manovre in corso per sostituirlo, compresa la comparsa di Ghezzi e ora il «tradimento» di Daldoss. È lei che sta tramando?
In questi 27 anni ho dimostrato che quando ho delle idee da portare avanti lo faccio senza tramare nell'ombra. E anche nei confronti del presidente Rossi penso di essere stato molto leale e trasparente. L'Upt è il mio partito e ora vediamo come evolverà in ragione di quello che accade. Penso vada recuperato lo spirito della Margherita. Apparteniamo a una cultura politica che ha bisogno di rigenerarsi, perché il popolarismo non è una ideologia, è un modo di vivere la comunità e bisogna che questo modo si doti degli strumenti richiesti dai tempi. Per non spegnersi ha bisogno di una riprogettazione, magari con altri.
Per questo l'Upt potrebbe partecipare al progetto di Daldoss?
L'Upt ha avviato una fase costituente non da oggi che è del tutto compatibile con una figura come Daldoss, salvo qualche distinzione su alcuni punti programmatici, ma nella sostanza l'area di riferimento è questa. Però l'Upt ha anche una storia politica. Per cui per me la condizione fondamentale è che questo progetto sia legato a una logica di alleanza, che punti a un progetto di governo non a una testimonianza isolata. Questo è fondamentale. Non solo perché c'è il turno unico e non dobbiamo aiutare la vittoria della destra. Ma anche perché noi abbiamo nel nostro Dna che la politica è inclusione e cooperazione, De Gasperi ha sempre detto così. È stato un coalizionale anche quando la Dc aveva la maggioranza assoluta. Secondo me Ghezzi da una parte e Daldoss dall'altra sono il tentativo di rielaborare due sensibilità, che se sono complementari assicureranno una nuova stagione di stabilità politica, se sono conflittuali semplicemente saranno l'epigono di alcune culture politiche e per un buon numero di anni avremo il Trentino governato da altre culture politiche molto diverse.
Quindi è l'ultima chiamata?
Se queste due aree complementari si mettono insieme non serve molto tempo per lanciare un messaggio credibile agli elettori.
Se questo tentativo non va in porto?
Ci sono molte incognite. Una di queste è la dirigenza del Pd.
Il Pd è rimasto inerte e diviso in tutti questi mesi. Ora cosa deciderà secondo lei?
Il Pd ha dimostrato una incapacità di leggere i fenomeni. Pensavano che blindando Rossi si risolvessero le cose, perché vedevano tutto da dentro le istituzioni. Fuori, sia a sinistra che nel campo centrista il dissenso verso la continuità c'era, ed è venuto fuori da solo, sia a sinistra con Ghezzi che al centro con Daldoss e l'Upt, che nel Parlamentino al 99% è stato durissimo con Rossi. Ma il primo partito della coalizione non può fare finta che queste cose non ci siano e continuare a non dare risposte. Io mi auguro che possa prevalere una maggiore consapevolezza.
Lei è stato sindaco di Trento, poi presidente della Provincia e deputato. Dopo 27 anni con ruoli importanti nelle istituzioni il 4 marzo è stato sconfitto per la prima volta proprio dal leghista Maurizio Fugatti, candidato presidente del centrodestra. Cosa pensa di fare ora della sua vita? Ci ha già pensato?
L'esito delle elezioni l'ho vissuto come una sconfitta personale perché c'era il mio nome sulla scheda, anche se tutti mi hanno detto che ci poteva essere anche il papa e avremmo perso. Poi ho avuto l'incidente sugli sci. È stato un periodo traumatico da ogni punto di vista. Come una lumaca mi sono rintanato nel guscio e ho iniziato a riflettere su come reimpostare la mia vita dopo 27 anni di politica a tempo pieno ai massimi livelli istituzionali. Per la prima volta vivo la mia vita dal punto di vista di chi è fuori dalle istituzioni. Mi sono aperto la partita Iva e cerco qualche collaborazione nel campo privato, non avendo redditi in questo momento, per consentirmi di utilizzare le esperienze che ho fatto.
E la politica? Ha chiuso oppure no?
La politica è la mia vita. A 30 anni ero sindaco di Trento. A 39 presidente della Provincia e poi membro del parlamento negli ultimi cinque anni. Non è che uno dismette la politica, dismette dei ruoli. Penso sia bene un periodo di distacco dai ruoli. Darò una mano ma non nel ritorno di ruoli ricoperti. Ma la politica sì.
In che modo?
Ho due obiettivi. Prima di tutto mi piacerebbe, non da solo, dare una mano a costruire una "rete di pensiero" in Trentino. Mi sono chiesto infatti perché il Trentino è diventato così permeabile alle onde nazionali e l'anomalia trentina sembra messa fra parentesi. Vuol dire che non è stato sufficiente quanto abbiamo fatto. L'autonomia è amministrazione e progetto politico e l'abbiamo fatto, ma dov'è il punto di fragilità? Forse è più profonda, è una fragilità di pensiero strutturale. Noi abbiamo tanti luoghi di eccellenza: nella cultura, l'impresa, l'associazionismo, ma non abbiamo aiutato a costruire un sistema di pensiero comunitario sull'autonomia.
Il secondo progetto a cui sta lavorando?
Vorrei lavorare alla formazione di una nuova classe dirigente politica e amministrativa.
Le hanno sempre rimproverato di aver lasciato il vuoto dietro. Per questo?
Non è vero che non ho lasciato spazio a persone nuove, se non si investe su forze nuove non si regge 27 anni. Il politico non è un imperatore che indica il successore. Il problema è che non ci sono i meccanismi per costruire classe dirigente. Non possono essere i partiti perché oggi sono in difficoltà e comunque la scuola di partito vera era quella sul campo, ovvero l'esperienza di partito accanto ai leader riconosciuti come capitò a me con Kessler, Piccoli, Berlanda, Paris. Io vorrei dare una mano a un'esperienza specifica di formazione destinata a 50 giovani desiderosi di fare un'esperienza di due anni di percorso intenso con persone qualificate. Mi piacerebbe fare, ad esempio, una cosa collegata alla scuola di Bruxelles e Parigi di Enrico Letta, se lui fosse disponibile. Certo, servono dei soldi per fare questo. Non deve essere una cosa di partito né eccessivamente targata. L'ideale è che fosse promossa da qualche realtà collettiva disposta a investirci qualcosa.