Se l'economia non cresce più
Se l'economia non cresce più
L’economia, in Italia, non cresce più.
Travolti dalle quotidiane dichiarazioni del vicepremier Salvini e dei suoi non meno loquaci colleghi, non ci siamo fermati, noi italiani, su questo dato che in verità dovrebbe preoccupare prima di tutto proprio il governo: in un mondo in affanno, in un’economia che stenta da ormai troppo tempo a rialzare la testa, l’Istat ci ricorda che siamo, fra i Paesi avanzati, quello che ha il record della più lunga “crescita” zero dal dopoguerra ad oggi. Cresce (di poco) l’occupazione, ma è un dato che va letto con attenzione. La produzione, infatti, non cresce. «Perché - lo spiega molto bene l’economista Mario Deaglio - il “lavoretto” sta, in parte non piccola, sostituendo il lavoro: ciascun lavoratore produce in media un po’ meno di prima e un impiego normale basta sempre meno a una persona - e meno che mai a un’intera famiglia - per condurre una vita normale».
Di fronte a una produzione che ha modi e orizzonti cortissimi, Deaglio sostiene che i mali economici creatisi in tempi lunghi hanno bisogno di tempi lunghi anche per essere curati.
Ma il nostro sistema sociale non lo prevede. Non ha un respiro lungo. Manca una strategia che vada al di là di quelle che definirei le nuove forme di assistenzialismo e al di là di agevolazioni contributive che in Italia sono considerate da tempo uno dei principali strumenti di politica industriale. Mancano idee per rilanciare un capitale umano che tende a mancare a tutti i livelli se è vero che in quasi ogni ambito - a cominciare dalla politica - si fatica anche a trovare nuova classe dirigente. Fra l’altro, il problema non è solo trovarla, una nuova classe dirigente: è crearla, prenderla per mano, accompagnarla nella crescita e trattenerla, considerato che molti dei nostri giovani migliori ormai hanno l’Europa e il mondo come orizzonte professionale.
Sia chiaro: loro fanno benissimo, perché bisogna superare la logica del cortile, del lavoro sotto casa, dell’occupazione a chilometro zero. Ma va pur detto che un’alternativa, l’Italia di oggi, fatica ad offrirla: perché non è competitiva, perché - salvo rare eccezioni - non è pronta ad una sfida che si gioca sulla visione, sulla velocità, sulle prospettive, sull’aggiornamento continuo, sulla “leggerezza” della burocrazia.
Un Paese in calo demografico - ha scritto Tito Boeri spiegando con grande chiarezza come andrebbero letti i dati - ha una tendenza inerziale a far crescere i tassi di occupazione, anche se la domanda di lavoro ristagna assieme all’economia nel suo complesso: in questo quadro aumenta la percentuale di chi lavora «perché siamo in meno a poter lavorare, c’è più lavoro di bassa qualità e c’è molto sostegno pubblico».
Non è davvero un bel quadro.