Pensioni: con «quota 100» si può lasciare prima, ma a caro prezzo
Il governo è intenzionato a varare la riforma delle pensioni, con l’introduzione della «quota 100» da aprile (dapprima per i lavoratori privati, poi da settembre anche per quelli pubblici). Si tratta di un superamento della legge Fornero, che dà la possibilità ai lavoratori di andare in pensione quando abbiano compiuto i 62 anni, ed abbiano almeno 38 anni di contributi. Sommando età e contributi, si ottiene il 100. Ma si potrà anche «anticipare» di alcuni anni (fin oa 5), rimettendoci però una bella fetta di pensione.
La novità delle ultime ore, infatti, è quella contenuta nell’articolo 22 della bozza che è stata approntata (ma non ancora approvata in Parlamento), il quale prevede oltre alla «quota 100» la possibilità di un anticipo fino a 5 anni per dipendenti di aziende che intendano avviare processi di sostituzione dei neo pensionati.
La misura prevede paletti e vincoli piuttosto dissuasivi, ma gli scivoli potrebbero venir coperti dai nuovi «Fondi di Solidarietà Bilaterali», una misura che si rivolge proprio alle aziende e che potrebbe consentire ai lavoratori di lasciare il lavoro 3 anni prima di aver raggiunto i requisiti per la quota 100. In sostanza, lo «scivolo» al lavoratore verrebbe pagato per metà dall’azienda (che comunque risparmia perché non deve più pagargli i contributi) e per metà da questi nuovi «Fondi» non meglio definiti.
Resterebbero in vigore tutti gli altri adempimenti per il lavoratore: servono 62 anni di età e 38 di contributi come soglie minime di accesso. Se si anticipa (a partire dai 59 anni), vi sarà il divieto di cumulo con altri redditi da lavoro (al di sopra di una soglia di 5 mila euro annui) fino allo scadere dei 62 anni. Inoltre le finestre, cioè la decorrenza delle pensioni, non scattano dal primo giorno del mese successivo a quello in cui si raggiungono i requisiti di quota 100, ma tre mesi dopo per i lavoratori del privato e 6 mesi dopo nel Pubblico Impiego.
Ma soprattutto lasciare il lavoro prima dei 62 anni, da un anno a 5 di anticipo, significa accettare un assegno previdenziale naturalmente inferiore per tutto il resto della vita, a causa dei coefficienti di trasformazione dei contributi in pensione e per via del minor numero di anni di lavoro coperti da contribuzione. Quanto inferiore?
Oggi il Corriere della Sera in un articolo di Enrico Marro prova a fare i conti. Per cominciare, questa perdita in alcuni casi potrebbe arrivare a quasi un terzo dell’importo che si sarebbe preso aspettando la pensione di vecchiaia. Nel decreto non è infatti prevista alcuna penalizzazione diretta per chi scelga di uscire con «quota 100», ma la normale applicazione dei metodi di calcolo della pensione porta necessariamente ad un assegno alleggerito. Uscendo prima, infatti, si possono far valere meno anni di contributi e il coefficiente di calcolo applicato è più basso per le età più giovani, perché il montante pensionistico dovrà appunto essere spalmato su più anni di erogazione. Scrive Marro: «Secondo i calcoli dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, il taglio dell’assegno cresce da circa il 5% in caso di anticipo solo di un anno a valori oltre il 30% se l’anticipo è di oltre 4 anni».
Tagli che si riducono «attualizzando la pensione con «quota 100», cioè tenendo conto del fatto che si percepirà per più tempo: si va così da una riduzione di appena lo 0,22% per chi anticipa di un anno a una di quasi il 9% per chi lascia il lavoro quest’anno anziché nel 2025.